• giovedì , 31 Ottobre 2024

Il tabù dei 60 anni

Gianfranco Fini non è un signore qualunque: è il ministro degli Esteri, gira il mondo. Sa, meglio di altri, che la globalizzazione ha spazzato via certezze consolidate e che l’ Italia è, tra i Paesi ricchi, il più vulnerabile, anche perché ha la peggiore situazione demografica e un sistema previdenziale che, nonostante le riforme, rimane tra i più costosi. Ma Fini è pure il leader di una forza politica attesa al varco delle elezioni. E quando gira il mondo vede anche Bush costretto a ritirare la sua riforma previdenziale. Ma la proposta di Silvio Berlusconi di portare l’ età pensionabile a 68 anni, benché emersa sotto forma di esternazione estemporanea, non può essere liquidata con un «non è ipotizzabile» come ha fatto il leader di An. Per non parlare della presa di posizione liquidatoria dei sindacati, secondo i quali «il problema previdenziale non esiste più». Tutto ciò ha senso solo se ci si limita a ragionare in termini di tatticismi politici e convenienze elettorali o se si sospetta che il premier abbia «mosso le acque» solo per costringere il ministro del Lavoro, Maroni, a modificare le norme sull’ uso del Tfr in un senso più favorevole alle compagnie assicurative. Ma chi analizza i dati reali del problema non può condividere queste conclusioni. Certo, non ha tutti i torti il ministro Alemanno quando dice che la riforma è già stata fatta e che «non si può cambiare ogni sei mesi»: quello delle pensioni è un meccanismo delicato, non può diventare una pentola in continua ebollizione. Ma la riforma è stata approvata un anno e mezzo fa, non da sei mesi, e dopo un lungo dibattito. Iniziato con molto ritardo perché durante la campagna elettorale del 2001 e poi, ripetutamente, all’ inizio della legislatura, Berlusconi aveva sempre negato l’ urgenza del problema previdenziale. Il premier andrebbe criticato soprattutto per questo ritardo e per aver varato una riforma di entità troppo limitata e che, ancora una volta, scarica tutti gli oneri sulle generazioni future. Ma gli altri partiti del centrodestra e le opposizioni non lo hanno aiutato a fare di meglio. I politici sono riluttanti perché sanno che, a occuparsi di tagli alle pensioni, c’ è quasi sempre da rimetterci, come dimostra anche l’ esperienza di Bush. Che però è stato attaccato per la sua volontà di privatizzare le pensioni, non per l’ intento di risanare i conti. Numeri, oltretutto, molto migliori di quelli che abbiamo noi, anche dopo la riforma: basti pensare che i contributi previdenziali gravano sulla busta paga Usa per il 12% contro il 33% italiano e che comunque il deficit pensionistico Usa non arriverà mai nemmeno all’ 1% del reddito nazionale. Il problema è reale e universale: tra 45 anni nel mondo gli ultrasessantenni, che nel 2000 erano 600 milioni, arriveranno a sfiorare quota 2 miliardi. I sistemi previdenziali, così come sono, non possono tenere: erano stati costruiti sulla base di ipotesi demografiche molto diverse e sul presupposto di una continua crescita delle economie. Invece gli anziani sono ormai un esercito (e sta per andare in pensione la generazione del baby boom), i nuovi nati sono troppo pochi, l’ economia non cresce più. Nessuno, nell’ Europa del welfare state, ha la ricetta per risolvere un problema di questa portata. Di certo non lo si può certo affrontare con le battute del sessantanovenne Berlusconi («Se io lavoro 13 o 14 ore al giorno, a questa età» possono lavorare anche gli altri). E se lo stesso discorso lo facessero alcuni ultraottantenni lavoratori infaticabili come il presidente Ciampi? Le soluzioni andranno trovate in un mix di scelte volontarie e nuovi vincoli, tra i quali non può essere esclusa a priori l’ ipotesi di un aumento dell’ età pensionabile, già deciso da alcuni Paesi e allo studio in Germania e in Gran Bretagna, oltre che negli Usa. Un problema, quello delle tutele sociali, col quale deve cominciare a misurarsi anche la sinistra. Chi pensa di poterlo esorcizzare, studi l’ esperienza di Ron Gettelfinger, il capo dell’ Uaw, il sindacato dei lavoratori Usa dell’ auto: per salvare la General Motors dalla bancarotta, ha dovuto accettare tagli dei diritti acquisiti che colpiranno gli operai e anche i pensionati. Era già successo alla United, compagnia aerea in crisi, e ora tutti si aspettano che anche le altre industrie messe sotto pressione dalla concorrenza internazionale seguano l’ esempio della Gm.

Fonte: Il Corriere della Sera

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