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Il Semestre di presidenza l’occasione per cambiare

Fu l’episodio cardine della recente storia politica ed economica italiana. Eppure non si conosce ancora tutto delle lettere che la Bce inviò il 5 agosto 2011 a Italia e Spagna. Sappiamo che la Bce non si fidava della legge di bilancio italiana perché rinviava l’80% dei sacrifici a una legislatura successiva e che così impose a Roma il pareggio di bilancio anticipato al 2013. Tanto minore era la credibilità politica, tanto più severe furono le garanzie di rispetto degli impegni. Ma quello che è invece rimasto sconosciuto fino ad oggi è che Roma e Madrid risposero alla Bce con due lettere datate 6 agosto 2011.
Quella italiana firmata da Silvio Berlusconi in poche righe assicurava la resa: «adempiremo a tutti gli impegni da voi richiesti». Quella spagnola invece chiedeva delle “correciones” perché le riforme richieste per il mercato del lavoro non corrispondevano al mandato politico del governo Zapatero.
La risposta italiana, a richieste per altro eccessivamente severe della Bce, era il sintomo di un rapporto non maturo con i partner e con le istituzioni comuni. Un rapporto che tuttora oscilla tra sudditanza e bellicismo. L’incomprensione di allora ha avuto conseguenze serie come abbiamo visto. L’economia italiana infatti si è avvitata tra sacrifici e sfiducia e l’opinione pubblica ora recrimina contro Bruxelles.
Il semestre italiano di presidenza coincide quest’anno con la campagna elettorale per le europee. È un’ottima occasione per impostare un discorso maturo. Certo “forconi” ed isterismi euroscettici, ingigantiti dai media, non aiutano. A sei mesi dal voto per il Parlamento di Strasburgo, il discorso pubblico sui temi europei oscilla infatti tra retorica e aggressività, contagiata dalla stessa febbre della politica interna, bloccata per vent’anni tra vittime e carnefici, tra carisma e galera. L’anno europeo può essere invece l’opportunità perché l’Italia parli a se stessa in modo nuovo.
Per farlo, deve prima di tutto capire il significato delle regole. Patti, limiti numerici e contratti sono il modo in cui l’Europalimita l’eccezionale sfiducia reciproca che sta crescendo tra i governi e purtroppo anche tra i cittadini.
Il Fiscal compact per esempio serve a blindare la credibilità delle politiche fiscali nel lungo periodo ma in tal modo anche a rendere meno stringenti i vincoli nel breve periodo (nel sottoscriverlo Mario Monti ottenne che il pareggio di bilancio del 2013 imposto dalla Bce tenesse invece conto del ciclo economico).
Senza i vincoli europei non ci accorgeremmo che il debito italiano si avvicina al 140% del pil. Nel 2018 il debito pubblico tedesco sarà sceso sotto il 60% del pil. Il nostro se va bene sarà il doppio. La convergenza tra Italia e Germania sarà minore di adesso, i tassi d’interesse e i tassi di crescita si distaccheranno. La richiesta tedesca di riconoscere nei bilanci bancari un rischio diverso ai titoli pubblici dei diversi paesi è il riflesso di questa realtà e allontanerà per sempre ogni possibilità di mutualizzazione del debito. Per tener viva la speranza di un’unione fiscale, per noi vitale, bisogna che l’Italia intervenga sul proprio debito, ma paradossalmente è solo Bruxelles a ricordarcelo.
Giovedì, nel suo energico discorso sulla fiducia, il presidente del Consiglio ha fatto riferimento ai «contratti di competitività» proposti dalla cancelliera Merkel. Si tratta di accordi con cui il Paese si impegna alle riforme necessarie a tornare competitivo e che potrebbero coincidere sia con il “Piano nazionale delle riforme” che Roma deve presentare a Bruxelles a marzo, sia con quel contratto di coalizione che Enrico Letta ha battezzato “Impegno 2014”. Letta ha confermato giovedì che se saranno messi a disposizione incentivi finanziari «non avremmo timore di considerare la creazione di intese contrattuali per le riforme strutturali». Ma il governo dovrebbe impegnare se stesso nella preparazione di questi accordi in modo ambizioso, come se dovesse vivere un solo giorno, ma durare eternamente.
È possibile infatti che fondi ad hoc siano resi disponibili, si parla di 60 miliardi di euro. Ma anche in considerazione dei tanti fondi europei inutilizzati o mal spesi dall’Italia, c’è da chiedersi se sia proprio questa la linea “matura” per un negoziato europeo da parte italiana. Una diversa strategia è possibile: Italia e Francia sono in grado di porre due condizioni per sottoscrivere gli accordi contrattuali e cioè che essi valgano per tutti i paesi dell’area euro e che siano basati in gran parte sulle «raccomandazioni specifiche» già prodotte dalla Commissione per ogni paese. In tal caso la Germania dovrebbe fare più riforme di tutti, liberalizzando il proprio mercato interno dei servizi e riattivando gli investimenti interni. La domanda europea ne avrebbe forte impulso e si ridurrebbe il surplus commerciale che squilibra la barca europea. Le risorse comuni è meglio che siano destinate al fondo di risoluzione dell’unione bancaria, senza il quale non si spezzerà la spirale tra debiti sovrani e debiti bancari.
Nel circuito media-politica, la resistenza ai «contratti di competitività» sarà forte, perché essi sembrano ridurre margini quasi esausti di scelta democratica e aggiungere nuovi vincoli a una struttura già sovraccarica di impedimenti. Merkel stessa sa che la discussione che si terrà al Consiglio Ue del 18 dicembre non sarà risolutiva.
D’altronde, come molti accordi europei, anche i «contratti di competitività», con le loro regole e i loro numeri che prevalgono sulle ideologie, nascondono un disagio dissociativo, un disorientamento politico. Chi conosce la lingua tedesca sa che «contratto di concorrenza» non è nemmeno un termine occidentale. Merkel lo deve aver scovato nella sua memoria della Ddr dove il Wettbewerbsvertrtag designava la competizione tra i diversi collettivi di lavoro per il compimento del piano quinquennale. Forse anche questo testimonia che oggi non è il tempo per le categorie tradizionali, bisogna prima rimettere in piedi le fondamenta della società e integrarla nel mondo. Poi tutto avrà più senso. Proprio come scriveva Christa Wolf, alla caduta del Muro, smarrite le categorie politiche della Ddr: «Niente paura. Un giorno parlerò anche di questo nell’altro linguaggio che ho nell’orecchio, ma non ancora sulla lingua. Oggi, lo sapevo, sarebbe ancora troppo presto».

Fonte: Sole 24 Ore del 15 dicembre 2013

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