La notizia cattiva è che Lehman è fallita, quella buona è che lo Stato non è intervenuto per salvarla: fummo in pochi a pensarla così, quel 15 settembre di cinque anni fa. Poi, quando il Dow Jones arrivò a perdere il 43%, nella sola America si volatilizzarono 6,3 milioni di posti di lavoro, e il Pil Usa scese del 3%, le critiche da pioggia diventarono grandinata. Chi aveva ragione? A cinque anni di distanza, credo che quel giudizio fosse giusto: è stato un bene lasciar fallire Lehman, anche se non solo, e forse neppure principalmente, per i motivi cari ai pochi che lo espressero.
La ragione che lo motivava ovviamente quella di evitare l’azzardo morale: quando, per paura di guai maggiori, lo Stato corre in soccorso dei banchieri, l’assumere rischi diventa una winning proposition che non solo è moralmente insostenibile, ma che aumenta l’instabilità del sistema. Non è per contrastare l’azzardo morale che il governo lasciò fallire Lehman, ma perché, dopo Bear Stearns, Fanny Mae e Freddy Mac, salvarla con soldi pubblici sarebbe stato improponibile sul piano politico (oltretutto dopo che si seppe che il ceo di Lehman, Dick Fuld, al suonare dei campanelli di allarme, aveva raddoppiato la scommessa): l’ultimo tentativo, abortito nella notte di domenica a causa del rifiuto del regolatore inglese, era stato di venderla alla Barcley’s. Preoccupazioni di azzardo morale in seguito non l’hanno avuta né il governo Usa per Aig, Washington Mutual, Wachovia e via salvando, né i governi europei per Ikb, Dexia, Northern Rock e via sborsando. Non solo l’azzardo morale non è stato eliminato, ma cambiando nome da riprovevole comportamento soggettivo è diventato una «rispettabile» caratteristica oggettiva, il «too big to fail». Lo stato si è assunto il compito di salvare banche «too systemically important to fail», e la discrezionalità di giudicare quali banche lo siano. Un fallimento inutile dunque, anzi dannoso?
«Evitare un’altra Lehman» è lo slogan con cui le banche hanno preso in ostaggio i governi e i governi dell’Eurozona i loro contribuenti. Ma si tratta di un’impostura: perché non è stata Lehman la causa della Grande recessione. Semmai Lehman ha contribuito a creare le condizioni perché venissero adottate le misure che, fino a prova contraria, sono servite a scongiurare il peggio. I tassi di interesse troppo bassi per troppo tempo, le politiche della casa dei governi da Clinton a Bush, la Recourse Rule e il monopolio accordato alle agenzie di rating, l’impoverimento della classe media americana, gli incentivi distorti, la deregolamentazione finanziaria, l’abolizione della Glass-Steagall, i derivati, l’eccessiva leva finanziaria, l’improvviso aumento del prezzo del rischio: nella sterminata letteratura sulla crisi, lunghissimo è l’elenco delle «cause», quelle che hanno il conforto dei dati e quelle che danno conforto alle opinioni, ma non esiste una narrativa credibile che connetta il fallimento della settima banca americana a una catastrofe che ha distrutto ricchezza per 18 trilioni di dollari. Lehman non era il problema, era sintomo di una situazione più estesa e profonda: durava da troppo tempo, era diventata insostenibile e in un modo o nell’altro doveva scoppiare.
Il 19 settembre, quattro giorni dopo il fallimento di Lehman, Hank Paulson presentava il suo piano, meno di 3 paginette per chiedere l’autorizzazione a spendere 700 miliardi di dollari. Respinto alla prima votazione, fu approvato il 3 ottobre: 4 giorni prima il Dow Jones aveva avuto un calo di 778 punti, il più alto in valore assoluto della sua storia. Oggi Tarp è un nome quasi impronunciabile; i soldi invece che per comperare «troubled assets», come sta nel nome, furono (saggiamente) usati per rafforzare il capitale delle banche. Eppure io condivido l’idea di chi giudica positivamente le azioni di Hank Paulson prima e di Tim Geithner dopo: sotto il peso di responsabilità tremende, con pochissimo tempo e informazioni scarse e incomplete, alla vigilia del cambio della guardia alla Casa Bianca, le loro azioni, estemporanee e magari confuse, evitarono il collasso del sistema.
«Non ci sarà un’altra Lehman», affermano ora sia Angela Merkel sia il suo avversario Peer Steinbrueck sia il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble: l’imminenza delle elezioni induce tutti a lanciare messaggi rassicuranti. La cancelliera ha reso popolare in Germania il pericolo dell’azzardo morale, l’ha usato come profilassi: il pareggio di bilancio diventato impegno costituzionale, gli aiuti – Esm e Omt – subordinati a precise e verificabili condizionalità. Sui princìpi la parola ora è alla corte, l’onda di Lehman potrebbe arrivare fino a Karlsruhe. Ma quanto all’applicazione dei princìpi, in Grecia e a Cipro è stata la sagra di indecisioni, contraddizioni e ritardi; e sulla sorveglianza bancaria, risolto forse il problema delle competenze, ma mancando regole chiare per la soluzione delle crisi, nessuno sa cosa rischiano, in caso di fallimento, gli azionisti, i diversi tipi di creditori, financo i depositanti. Così le banche hanno difficoltà a finanziarsi e quindi riducono il credito all’economia. Negli Usa le imprese ricorrono direttamente ai mercati emettendo obbligazioni, chi le compra conosce i rischi che corre. In Europa, in particolare in Italia dove non esiste, per vari motivi, un vero mercato dei loro titoli di debito, le imprese rimangono dipendenti da intermediari riluttanti a erogare credito. Gli Usa hanno avuto Lehman e l’economia ha da tempo ripreso a crescere. Noi non l’abbiamo avuta, ma abbiamo il credit crunch.
Il sacrificio necessario di Lehman
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