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Il riscatto in divisa degli italoamericani

Al mio primo viaggio di lavoro negli Stati Uniti (seconda metà degli anni Settanta) più d’uno, americani ma anche italiani,mi avvertì: «Attento, spiega sempre che sei un italiano appena sbarcato negli Usa, non un italoamericano. Un italiano viene identificato con l’arte, la moda, il design, la cultura, il saper vivere. L’italoamericano è uno molto indietro nella scala sociale. Uno di scarsa cultura e modi piuttosto cafoni, sul quale aleggia sempre il sospetto di avere a che fare,magari solo come vittima, con qualche organizzazione criminale. Col primo si conversa amabilmente, il secondo viene evitato per non rischiare di trovarsi in qualche situazione imbarazzante».
Oggi quell’immagine degli emigrati e dei loro discendenti – che pure continua a essere diffusa dagli stereotipi televisivi dei Sopranos e del serial Jersey Shore – è sostanzialmente evaporata. Merito della crescente integrazione degli americani di origine italiana in una società Usa che, nel frattempo, è diventata sempre più multirazziale. Da Rudy Giuliani, sindaco «anticrimine» di New York negli anni 90, al neogovernatore dello Stato, Andrew Cuomo, a Leon Panetta, nuovo capo del Pentagono dopo aver guidato la Cia, i nomi italiani si moltiplicano negli incarichi più importanti e delicati.
Molte di queste storie di emancipazione vengono raccontate da Maurizio Molinari in un libro pubblicato da Laterza, Gli italiani di New York (pagine 288, € 16), la città che è stata storicamente la porta dell’immigrazione dall’Europa e nella cui area urbana (comprendente anche Long Island e un pezzo di New Jersey) vivono tuttora oltre 3 milioni di cittadini di origine italiana.
Da Diego Piacentini, numero due di Amazon, all’architetto e designer Gaetano Pesce, passando per Lady Gaga (all’anagrafe Stefani Angelina Germanotta) e Lamberto Andreotti che, lontano da un padre che in Italia ha incarnato per quasi mezzo secolo il potere, si è imposto come manager di successo nel mercato più competitivo del mondo, fino a divenire amministratore delegato del gigante chimico-farmaceutico Bristol-Myers Squibb, la galleria dei ritratti è ricchissima. Con un occhio particolarmente attento al mondo della ristorazione dove regnano Lidia Bastianich (celebre per i suoi ristoranti di grido ma soprattutto per i suoi show culinari seguiti in televisione da quasi 50 milioni di americani) e un pugno di chef con in testa Mario Batali.
Il saggio diventa, così, anche guida ai luoghi del gusto e dell’orgoglio italiano, con tanto di mappe dei cinque borough di New York. Un percorso che non dimentica le storie più umili: dai «sacerdoti di frontiera» che nei quartieri difficili hanno aiutato i ragazzi italiani ad allontanarsi dal crimine, ai pompieri e ai poliziotti che hanno dato la vita per la sicurezza dei cittadini di New York.
Ed è proprio qui, nel racconto di Molinari, corrispondente «di lungo corso» del quotidiano «La Stampa» dagli Stati Uniti, che troviamo la chiave dell’integrazione degli italoamericani: la loro presenza di massa nei corpi di polizia e nelle forze armate, l’enorme contributo di sangue dato dieci anni fa nella tragedia delle Torri gemelle, la determinazione con la quale gli italiani in divisa – da Joe Petrosino in poi – hanno combattuto contro quelli reclutati dalla Mafia, hanno finito pian piano per riscattare l’immagine di un popolo, cancellando i pregiudizi e riducendo di molto l’area della diffidenza.
Per convincersene basta dare un’occhiata alle forze armate, sacre per gli americani che le considerano il baluardo a difesa delle loro libertà e del loro stile di vita, dove l’ammiraglio Edmund Giambastiani è stato fino al 2007 il capo di tutti i sottomarini della Nato, mentre Peter Pace è divenuto nel 2005 il primo capo di Stato Maggiore delle forze armate di origine italiana. Oggi tutti gli occhi sono puntati sul generale Raymond Odierno, un gigante calvo alto due metri che, dopo aver firmato la cattura di Saddam Hussein ed essere stato capo delle forze Usa in Iraq, da due mesi guida l’intero esercito Usa.
Un aspetto interessante – e per certi versi doloroso – degli «italiani di New York» è il racconto di come gli italiani d’America, guardati con sospetto nel loro nuovo Paese, siano stati ignorati e a volte disprezzati, per oltre un secolo, dalla loro stessa Patria d’origine. Effetto di un’emigrazione di massa iniziata nel 1870, vissuta da una parte dell’Italia non solo come una fuga dalla povertà, ma anche come il rifiuto da parte di un pezzo di Meridione ad appartenere a un Paese unificato. Diffidenza e risentimento durati per decenni, riscattati solo di recente (e solo in parte) con l’introduzione dell’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, e la creazione di collegi elettorali nei cinque continenti.

Fonte: Corriere della Sera del 28 luglio 2011

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