È una bella novità che sia Mario Draghi a suggerire ai governi un «patto per la crescita». Tuttavia il banchiere centrale dell’euro per crescita non intende ciò che intende la gran parte dei politici quando la invoca.
Può darsi che una vittoria di François Hollande serva a rimescolare le carte sul tavolo, come in Italia spera oltre alla sinistra anche una parte della destra; purché si abbandonino le chiacchiere da campagna elettorale.
Vale la pena di guardarsi attorno. Non stiamo vivendo solo una crisi dell’euro. La ricetta britannica, austerità di bilancio fondata su tagli alla spesa e politica monetaria spericolatamente espansiva, appariva più efficace; scopriamo adesso che la recessione nel Regno Unito ha andamento e gravità simili a quelli dell’Italia. Né il successo dei partiti populisti è solo conseguenza dell’austerità per salvare l’euro, dato che investe anche Svezia e Danimarca.
Tutti i Paesi avanzati stentano a crescere, oggi. Tutta l’Europa avanzata patisce i traumi dell’immigrazione massiccia e dell’ascesa industriale dei Paesi emergenti. Rivolto ai politici, Draghi insiste: lo sviluppo non arriva né con i deficit di bilancio né con una politica monetaria ancor più espansiva. Forse il presidente della Bce aveva in mente proprio la sua Italia. Dal Duemila fino alla crisi si sono sperimentati prima gli sgravi fiscali, poi l’aumento della spesa; mentre i tassi di interesse bassi assicurati dall’euro non imprimevano decisivi impulsi a una economia fiacca.
Facile è replicare a Draghi chiedendogli allora che cosa propone. Nelle posizioni del presidente della Bce c’è un inevitabile equilibrismo, stretto com’è tra le pressioni sull’Europa del Fondo monetario (spalleggiato da Usa e Paesi emergenti) e i no della Germania e della Bundesbank. Manca la risposta a una questione chiave posta dal Fmi: l’austerità di bilancio è davvero necessaria anche nei Paesi con i conti in ordine, come la Germania e l’Olanda?
Però è interessante che sia un banchiere centrale a chiedere ai politici di avere più «visione»: di solito, chi svolge quel ruolo esorta a tenere i piedi per terra. Non servono progetti magniloquenti, che a orecchie tedesche suonerebbero «pagherete voi i debiti degli altri»; occorre però indicare una direzione di movimento, verso una unione più stretta, e una politica più trasparente.
E’ spesso la difesa a oltranza di nuclei di potere politico-economico nazionale a rendere i 17 Stati dell’euro più deboli di fronte ai mercati di quanto i dati economici giustificherebbero. Ad esempio, un intervento di fondi europei a sostegno delle banche spagnole potrebbe risultare molto utile; Madrid non lo chiede forse per proteggere consorterie interne, Berlino lo rifiuta per sfiducia nelle altrui capacità di governo.
Anche Angela Merkel ora afferma che il solo rigore di bilancio non basta. L’Italia non può sottrarvisi. Deve casomai evitare un corto circuito letale: il malcontento contro l’austerità potrebbe essere sfruttato dai centri di potere per non applicare l’austerità a sé stessi. Un esempio lampante è quelli dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso i fornitori: le imprese giustamente li vogliono saldati, ma una parte corrisponde a denaro che non si doveva spendere, sorge da una diffusa disobbedienza ai tagli.
Nei primi mesi dell’anno non è calata la spesa pubblica, perché burocrati ed amministratori locali tentano di sfuggire ai vincoli. Nuovi scandali in imprese a controllo statale ripropongono l’opportunità di privatizzazioni. Pulizia della politica e revisione della spesa pubblica (o spending review che dir si voglia) non possono procedere l’una senza l’altra: sono le due facce della riforma strutturale oggi di gran lunga più importante.
Il rigore di bilancio non basta
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