• domenica , 24 Novembre 2024

Il problema atavico del nostro capitalismo

Il made in Italy che insiste a essere piccolo
Molti studi e analisi recenti – dall’Istat a Bankitalia, fino alla bella relazione del presidente Luigi Marino all’assemblea di Confcooperative – confermano che la perdita di competitività del nostro sistema industriale scaturisce da un problema atavico del capitalismo made in Italy: il nanismo delle imprese. A confronto con i maggiori paesi europei, la situazione appare drammatica: il numero medio di addetti per impresa in Italia è 3,8 (in crescita di un misero 2,7%), contro i 7,1 della Francia, i 12,2 del Regno Unito e i 12,4 della Germania. Il 99,4% delle aziende italiane è sotto i 50 dipendenti, il 95% sotto i 10. E dal capitalismo bonsai derivano una serie di altri problemi: minori investimenti, scarso impiego di manodopera qualificata, poca spesa in ricerca e innovazione, minori impieghi di denaro in servizi e reti distributive, internazionalizzazione marginale, tendenza a far ricorso solo al credito a breve. Ecco spiegata la perdita di produttività (-0,8% all’anno nell’industria manifatturiera, contro una crescita del 2,4% della Francia e del 3,7% della Germania), e quindi di competitività sui mercati globali.
Ma della “questione dimensionale” finora la politica o non s’è accorta, se non nelle chiacchiere dei convegni, o non si è preoccupata. Anzi, quando ci sono fenomeni in controtendenza, il rischio è che intervenga a depotenziarli: per esempio, la cooperazione italiana negli ultimi dieci anni ha raddoppiato sia l’occupazione che il fatturato, superando il 7% del pil. Soltanto negli ultimi tre anni la dimensione media degli addetti è cresciuta del 18,3%, passando da 20,8 a 24,6 dipendenti, sei volte e mezzo la media generale. Non solo: dei 20 mila associati Confcooperative, a crescere sono quelle che hanno già raggiunto un elevato livello dimensionale. In otto anni le grandi e medie coop hanno aumentato la capitalizzazione del 127,6% (contro il 27,1% di quella delle piccole e micro), il fatturato del 77,6% (grandi) e del 50,9% (medie) mentre nelle piccole è diminuito del 40,9%, l’occupazione del 75% (grandi) e del 51,2% (medie) a fronte di un -41% delle piccole. Così, non è un caso che solo il 41% delle microcooperative riesca a sopravvive all’ottavo anno di vita. Eppure molti continuano a considerare la cooperazione un’anomalia, e altrettanti una cinghia di trasmissione da sfruttare, mentre questi numeri dimostrano che è l’avanguardia di un sistema produttivo che invece non riesce a crescere. Bene ha fatto, dunque, il presidente Marino a chiedere di non confondere il caso Unipol con tutto il resto della cooperazione, di origine bianca o rossa che sia, e a difendere Coop Italia, che pure appartiene al mondo dei cugini della Legacoop, attaccata in sede comunitaria. Ora però, mentre si chiede al governo di favorire o quantomeno di non penalizzare un polo di crescita del nostro asfittico capitalismo, l’associazionismo cooperativo dimostri che sono superate le antiche divisioni politiche e sia dia una rappresentanza unitaria. Perché se è vero che la questione delle questioni della nostra economia è il nanismo, forma patologica dell’individualismo italico, chi ha saputo usare il lievito della crescita ha il diritto-dovere di fare un salto di qualità nella gerarchia della classe dirigente del Paese. Ma per riuscirci, il mondo coop deve unirsi, definitivamente.

Fonte: Il Messaggero del 2 luglio 2006

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