Il made in Italy che insiste a essere piccolo
Molti studi e analisi recenti dallIstat a Bankitalia, fino alla bella relazione del presidente Luigi Marino allassemblea di Confcooperative confermano che la perdita di competitività del nostro sistema industriale scaturisce da un problema atavico del capitalismo made in Italy: il nanismo delle imprese. A confronto con i maggiori paesi europei, la situazione appare drammatica: il numero medio di addetti per impresa in Italia è 3,8 (in crescita di un misero 2,7%), contro i 7,1 della Francia, i 12,2 del Regno Unito e i 12,4 della Germania. Il 99,4% delle aziende italiane è sotto i 50 dipendenti, il 95% sotto i 10. E dal capitalismo bonsai derivano una serie di altri problemi: minori investimenti, scarso impiego di manodopera qualificata, poca spesa in ricerca e innovazione, minori impieghi di denaro in servizi e reti distributive, internazionalizzazione marginale, tendenza a far ricorso solo al credito a breve. Ecco spiegata la perdita di produttività (-0,8% allanno nellindustria manifatturiera, contro una crescita del 2,4% della Francia e del 3,7% della Germania), e quindi di competitività sui mercati globali.
Ma della questione dimensionale finora la politica o non sè accorta, se non nelle chiacchiere dei convegni, o non si è preoccupata. Anzi, quando ci sono fenomeni in controtendenza, il rischio è che intervenga a depotenziarli: per esempio, la cooperazione italiana negli ultimi dieci anni ha raddoppiato sia loccupazione che il fatturato, superando il 7% del pil. Soltanto negli ultimi tre anni la dimensione media degli addetti è cresciuta del 18,3%, passando da 20,8 a 24,6 dipendenti, sei volte e mezzo la media generale. Non solo: dei 20 mila associati Confcooperative, a crescere sono quelle che hanno già raggiunto un elevato livello dimensionale. In otto anni le grandi e medie coop hanno aumentato la capitalizzazione del 127,6% (contro il 27,1% di quella delle piccole e micro), il fatturato del 77,6% (grandi) e del 50,9% (medie) mentre nelle piccole è diminuito del 40,9%, loccupazione del 75% (grandi) e del 51,2% (medie) a fronte di un -41% delle piccole. Così, non è un caso che solo il 41% delle microcooperative riesca a sopravvive allottavo anno di vita. Eppure molti continuano a considerare la cooperazione unanomalia, e altrettanti una cinghia di trasmissione da sfruttare, mentre questi numeri dimostrano che è lavanguardia di un sistema produttivo che invece non riesce a crescere. Bene ha fatto, dunque, il presidente Marino a chiedere di non confondere il caso Unipol con tutto il resto della cooperazione, di origine bianca o rossa che sia, e a difendere Coop Italia, che pure appartiene al mondo dei cugini della Legacoop, attaccata in sede comunitaria. Ora però, mentre si chiede al governo di favorire o quantomeno di non penalizzare un polo di crescita del nostro asfittico capitalismo, lassociazionismo cooperativo dimostri che sono superate le antiche divisioni politiche e sia dia una rappresentanza unitaria. Perché se è vero che la questione delle questioni della nostra economia è il nanismo, forma patologica dellindividualismo italico, chi ha saputo usare il lievito della crescita ha il diritto-dovere di fare un salto di qualità nella gerarchia della classe dirigente del Paese. Ma per riuscirci, il mondo coop deve unirsi, definitivamente.
Il problema atavico del nostro capitalismo
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