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Il prezzo delle mancate riforme, un macigno sulla crescita italiana

Negli ultimi quindici anni, dal 1995 al 2010, i prezzi di beni e servizi in Italia si sono rivalutati – o meglio: “apprezzati” – del 50% rispetto alla Germania. Nello stesso periodo, però, Berlino ha fatto registrare un deprezzamento del 21% nei confronti della media degli altri Stati dell’eurozona. Il dato mostra un’evidenza: sul nostro Paese grava una palla di piombo che frena qualsiasi programma di crescita e che non può essere alleggerita da semplici misure per agevolare l’edilizia, il turismo, la ricerca e solo alcuni settori di punta del manifatturiero.
Come è stato possibile tutto questo se nell’eurozona abbiamo la stessa moneta come unità di conto, di transazione e di riserva, e se le regole della Banca centrale europea (Bce) comportano interventi ogni volta che il tasso d’inflazione tocca il 2% annuo?
Dal punto di vista statistico, ciò è possibile perché l’indice armonizzato dei prezzi al consumo, registrato ogni mese nel Bollettino della Bce, ogni anno ha avuto un andamento leggermente più basso in Germania rispetto al resto dell’area euro, e in particolare rispetto all’Italia e agli altri Stati ad alto debito. In ogni caso, questo è solo uno dei molti modi di misurare l’inflazione. Altri indici sono più indicativi rispetto a quello dei prezzi delle merci e dei servizi della “famiglia tipo” europea. L’indicatore forse più chiaro è utilizzato per computare a prezzi costanti, invece che a prezzi correnti, la contabilità economica nazionale (nel lessico degli statistici, il “deflattore” del Pil o del reddito nazionale). Un altro indice rivelatore è poi quello dei prezzi alla produzione, che scatta la fotografia dei listini prima che su questi intervenga la catena distributiva.
Bene, utilizzando questi due indici ci si accorge che, nell’arco di 15 anni, in Italia un paniere di beni e servizi alla produzione ha registrato un aumento doppio di quello riscontrato, per il medesimo paniere, in Germania, dove nello stesso periodo si è invece registrato un deprezzamento del 21% rispetto al resto dell’area dell’euro. Questa “rivalutazione” strisciante del made in Italy inteso in senso lato fa sì che, mentre la Germania cresce al traino delle esportazioni, da noi l’economia ristagni. In buona parte ciò è stato possibile perché, in seguito alla riunificazione tedesca prima, e all’unione monetaria poi, Berlino è stata capace di ristrutturare in modo strutturale e profondo la propria economia, cambiando drasticamente, ad esempio, le regole in materia di lavoro e di incentivi alle imprese, al fine di potenziare i comparti a più alta produttività. Un programma realizzato non dai conservatori, bensì dai socialdemocratici e dalla “grande coalizione”. E ora sono i cristiano-democratici e i liberali a coglierne, politicamente, i frutti, mentre i tedeschi guardano con maggiore fiducia all’avvenire.
Si può fare qualcosa del genere anche in Italia? La risposta è sì. Tuttavia, la decisione di puntare sull’edilizia, sul turismo, sugli sgravi tributari alla ricerca o sulla promozione delle esportazioni rischia di servire a poco o nulla, se tutti questi interventi non sono parte di un programma rivolto a massimizzare la produttività del sistema. Ciò non vuole però dire che si debbano contenere i salari (come ha fatto la Germania), perché in Italia il netto in busta paga è in media tra i più bassi nell’eurozona e i consumi sono praticamente rasoterra. Occorre invece rendere più produttivi i comparti non aperti alla concorrenza internazionale, liberalizzando nella speranza che la maggiore dinamicità nei mercati protetti porti miglioramenti. È necessario, soprattutto, potenziare i due grandi fattori di aumento della produttività che l’Italia ha trascurato per decenni: il capitale umano e il capitale sociale. Solo così si potrà dare all’economia quella “scossa” di cui si parla da tempo.

Fonte: Avvenire del 26 aprile 2011

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