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Il presidente e la rinascita dell’auto:”Non ci siamo mai rassegnato”

La visita allo stabilimento Jeep: «Salvati due milioni di posti» In Borsa L’ amministratore delegato del Lingotto: il ritorno in Borsa di Detroit non prima del 2012

TOLEDO (Ohio) – «Grazie per aver salvato la Chrysler». «Grazie per avermi aiutato a non perdere il lavoro». Uno dopo l’ altro gli operai del reparto di verniciatura delle Jeep “Wrangler” che hanno appena finito il loro turno passano attraverso i tornelli e stringono la mano al presidente degli Stati Uniti che li accoglie con le maniche rimboccate. Elogi, pacche sulle spalle, foto ricordo per tutti. Ieri Barack Obama si è concesso una specie di «giro d’ onore» nello stabilimento Chrysler-Jeep di Toledo, dopo il ritorno del gruppo di Detroit al profitto e il completo rimborso dei prestiti concessi dal governo attuale. «Non potrei essere più fiero di quello che avete fatto», ha detto Obama ai dipendenti Chrysler. Mancano ancora 17 mesi alla sfida per la Casa Bianca, ma il leader democratico è già in campagna elettorale e non voleva perdere l’ occasione di sottolineare che aveva avuto ragione a scommettere sull’ industria americana dell’ auto contro il parere dei repubblicani e anche della maggioranza dell’ opinione pubblica Usa: Chrysler ha ripagato tutti i suoi debiti con sei anni di anticipo, il Tesoro ha ufficializzato la vendita della sua quota alla Fiat che ha ormai la maggioranza assoluta di un gruppo automobilistico tornato totalmente in mani private molto prima del previsto. I conservatori continuano a sostenere che non tutto è filato così liscio, che rimane un bel buco. Tutto a carico del contribuente. Ma alle critiche di Mitt Romney risponde lo stesso Marchionne che durante il tour in stabilimento lascia tutto il palcoscenico a Obama, ma nelle interviste mattutine a varie televisioni rimbecca il candidato repubblicano: «La verità è che il governo attuale ha riavuto indietro quello che ha investito nell’ auto. Gli altri sussidi sono quelli che erano stati concessi dall’ Amministrazione Bush». Come dire: chiedete a loro perché avevano dato soldi senza alcuna garanzia di rimborso. Lungo la linea di montaggio delle Jeep gli operai hanno allestito un piccolo anfiteatro. Mike Ramsey, maglia del sindacato Uaw e una lunga, foltissima barba rossa, alla fine si siede soddisfatto: «Lavoro in questo impianto da 25 anni. Quando sono entrato eravamo cinquemila. Siamo rimasti 1.500. Non c’ è sicuramente da fare festa. Ma due anni fa stavamo molto peggio. Eravamo di meno e rischiavamo di andare tutti a casa. Oggi siamo decisamente più fiduciosi». Obama arriva e parla a un centinaio di operai, esalta la loro etica del lavoro, lo spirito di sacrificio. E’ importante, per lui, puntare una bandierina elettorale in Ohio: nessuno, dal 1964, è diventato presidente degli Usa senza conquistare questo Stato. Ma non dimentica gli altri collegi: «Costruendo qui le Wrangler voi sostenete altri 3.000 posti di lavoro. Quelli degli operai che costruiscono le portiere in Michigan, i semiassi in Kentucky, i pneumatici in Tennessee. E poi tutto l’ indotto in città». E’ quasi una lista della spesa elettorale quella declinata da Obama che, prima di entrare nello stabilimento, aveva reso omaggio all’ “indotto” andando a mangiarsi col suo seguito un panino da “Rudy’ s Hot Dog”, storico locale fondato nel 1920 da un immigrato greco-cipriota. Erano gli anni dello splendore di questa città industriale ormai decaduta, gonfia di enormi edifici pubblici, sproporzionati rispetto alle attuali dimensioni di una città punteggiata da prati incolti, edifici abbandonati con le finestre coperte da pannelli di compensato e capannoni trasformati in edifici nelle quali le famiglie vivono e gestiscono anche una qualche attività artigianale. Come Ralph e la moglie Gini. Lui fino a qualche anno fa gestiva una vetreria, ma era un lavoro troppo faticoso. A 55 anni ha mollato ma, senza pensione né assicurazione sanitaria, si è inventato un altro mestiere: una torrefazione e una piccola produzione di cioccolata. E’ una di quelle storie che Obama ama raccontare: l’ America che lavora duro, che non si adagia, che reagisce. Ieri è tornato a raccontare la parabole dello straordinario recupero di un’ industria che veniva data per persa: «Ci fossimo rassegnati, avremmo perso altri due milioni di posti di lavoro. Invece abbiamo dimostrato a tutti che gli americani possono ancora produrre le migliori vetture del mondo». Enfasi un pò forzata nel giorno in cui i dati dell’ occupazione nel mese di maggio segnalano un nuovo rallentamento. Obama sfiora appena l’ argomento, se la prende con gli effetti economici del terremoto in Giappone e dei sommovimenti politici in Medio Oriente. Ma poi ammette che il futuro non è un’ autostrada in discesa ma un percorso ancora pieno di buche e ostacoli. In un angolo, alla fine, Marchionne fa il punto con la stampa: con la Fiat ormai in maggioranza e con un’ opzione per l’ acquisto della quota residua (45% circa) detenuta dal fondo sanitario dei sindacati, la quotazione in Borsa della Chrysler non è più una priorità. Ora Wall Street non va bene, «vedremo nel 2012, alla luce degli sviluppi dei prossimi mesi». Intanto l’ integrazione dei gruppi dirigenti delle due Case automobilistiche procede come da programma. E la quota canadese? «Abbiamo fatto la nostra offerta. Avremo una risposta, siamo fiduciosi». Troppi i 500 milioni pagati dalla Fiat per la quota del Tesoro? «Quando compri ti sembra sempre di pagare troppo». Costano troppo anche i suoi maglioni? «Anche quelli mi sembrano troppo cari».

Fonte: Corriere della Sera del 5 giugno 2011

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