• lunedì , 23 Dicembre 2024

IL PIANO JUNCKER POLITICHE E CRITERI D INVESTIMENTO PER LE INFRASTRUTTURE

1 Premessa In questi ultimi anni e mesi il dibattito sul ruolo delle infrastrutture nella politica di uscita dalla crisi in Europa e più specificatamente in Italia si è fatto particolarmente intenso, anche a ragione di interpretazioni giornalistiche di dichiarazioni di esponenti delle parti sociali.. Si dispone, inoltre, di ricca documentazione messa a punto in occasione di analisi e confronti a carattere pubblico (ad esempio; CEPII, 2014, Huang, Pickford, Subassi, Tentori, 2014; Reviglio, 2014, Bassanini, Reviglio, , 2014; Bassanini F., Reviglio E. 2013° e b Reviglio 2012 Pennisi, Balassone , Casadio, 2011; Bassanini, Reviglio 2011, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, 2011); Ministero dell’Economia e delle Finanze . 2014; Wagenwoort, R. De Nicola C., Kappeler A. 2011,) con dati ed analisi di alto livello. Ci sono stati altri contributi importanti sia italiani sia internazionali (ad esempio, Klenert . Mattauch , Edenhofer , Lessman . 2015; Warren a) e b) 2014, Calderon, Moral-Benito, Serven, 2011; Hull, 2011;Ragazzi, 2011). Non si citato i lavori presentati ai seminari precedenti di questa serie in attesa di riceverli in forma scritta.
Sin dall’inizio è essenziale sottolineare che l’ Italia rischia di non essere tra i beneficiari del ‘Piano Juncker’ : le infrastrutture non vengono realizzate in quanto esiste una incapacità cronica del sistema paese a preparare, programmare, progettare,
appaltare opere. Le nostre imprese e i nostri ingegneri sono i migliori del mondo; posso affermarlo anche perché ho assunto, dopo dura selezione competitiva, ingegneri italiani in Banca mondiale .Le nostre banche e la stessa Cassa Depositi e Prestiti finanziano opere in Italia e all’estero, ma la pubblica amministrazione pare incapace di allestire progetti e programmi . Il decreto legislativo 228/2011, che richiede documenti pluriennali di pianificazione delle opere pubbliche e di pubblica utilità è in gran misura disatteso. La stessa Scuola Nazionale d’Amministrazione ha in gran misura smantellato la formazione in queste materie da circa otto anni. Quando il ‘Piano Juncker’ entrerà in fase operativa, la qualità nella nostra progettualità verrà messa in concorrenza con quella dei nostri partner europei. C’è il pericolo che non riusciremo a generare domanda di investimenti all’altezza di quella di altri Paesi. Con le implicazioni che si possono immaginare.

uesta nota ha l’obiettivo di tirare le somme di quanto pubblicato e di formulare alcune proposte al fine di meglio definire parametri e criteri per la definizione d’investimenti in infrastrutture che meglio contribuiscano ad una crescita inclusiva – per “inclusiva” si intende cresciti che dai particolare attenzione alla aree territoriali ed alle fasce di reddito e di consumo meno favoriti.
La nota è divisa in quattro parti: a) esaminare le eventuali opportunità offerte dal ‘Piano Juncker’) definizioni di come vengono contabilizzate le spese per le infrastrutture; b) strategia di rilancio della spesa pubblica e privata per le infrastrutture c) le strategie europee e d) parametri e criteri per l’analisi degli investimenti, tenendo conto dei lavori recentemente avviati dall’Istat. Occorre sottolineare che numerosi aspetti del ‘Piano Juncker’ sono ancora in evoluzione, come sottolineato di recente a Roma dal Presidente della Commissione Economia del PE, On. Roberto Gualtieri (European Council, 2015, European Parliament , 2015).

2 Il Piano Juncker
Il Piano Juncker è stato allestito come strumento per rilanciare l’anemica economia europea. Se ne parlò molto con tanto clamore lo scorso novembre quando venne presentato. Si sarebbe trattato di un programma ambizioso di 315 miliardi di euro, nell’arco di tre anni a partire dal giugno 2015, per promuovere l’occupazione e la crescita (per una sintesi Commissione Europea, 2014; per un’analisi dettagliata della situazione ad inizio febbraio, Bini Smaghi 2015, per un approfondimento analitico, UPB 2015).
La Commissione europea (Ce) ha proposto un Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), che sarà istituito in stretto partenariato con la Banca europea per gli investimenti (Bei), ma la Ce e la Bei di proprio ha messo sul piatto solamente 21 miliardi di euro ‘dio garanzie’ . Sino al 15 marzo 2015, la dotazione del Feis ha raggiunto 50 miliardi di euro grazie a contributi volontari degli Stati dell’Ue (di cui 8 dell’Italia tramite la Cassa Depositi e Prestiti). Al Fondo sarà associato un organismo di consulenza – lo European Investment Advisory Hub – che aiuterà gli Stati dell’Ue a mettere a punto i progetti più efficaci. Un Comitato per gli Investimenti farà proposte di finanziamento sulla base di istruttorie ed analisi di valutazione effettuate in sostanza dal personale Bei. Al momento della stesura di questa nota, il regolamento del Feis è ancora al vaglio del Parlamento Europeo e le procedure di nomina e di incarico dei componenti del Comitato per gli Investimenti sono ancora in fase negoziale nell’ambito dell’Ecofin.
Il Fondo dovrebbe costituire, secondo i comunicati della Ce, “il fulcro dell’offensiva sugli investimenti” del Presidente Ce Juncker, che mobiliterebbe 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati in tutta l’Unione europea, con un effetto leva di uno a tre nei confronti della Bei e complessivamente di uno a quindici. Il disegno è essenzialmente di attirare capitale privato grazie all’aumento di qualità del finanziamento dovuto alla garanzia Ce-Bei. Sarebbero sostenuti soprattutto gli investimenti strategici, ad esempio nella banda larga e nelle reti energetiche, e le imprese di dimensioni più piccole. In Bini-Smaghi( 2015,) viene presentata una stima di ripartizione settoriale per l’intera Unione ed una dettaglia per l’Italia sulla base delle informazioni fornite dai servizi della Ce e delle amministrazioni centrali dello Stato. In UPB 2015 vengono esaminate le numerose criticità. Questi nodi dovrebbero essere appianati da un Regolamento la cui bozza è all’esame del Parlamento Europeo (Council of European Parliament , 2015). Detto Regolamento dovrebbe essere approvato entro l’estate 2015 , in parallelo con una Comunicazione della Commissione sulle ‘banche di sviluppo o promozionali’ dell’Unione. La bozza di tale Comunicazione (European Commission 2015) sembra aprire uno spiraglio ad un grado pur limitato di flessibilità per gli investimenti a valere sul ‘Piano Juncker’.
La proposta istituisce inoltre un Polo europeo di consulenza sugli investimenti per contribuire all’individuazione, la preparazione e lo sviluppo di progetti in tutta l’Unione. Una riserva di progetti di investimento europei migliorerà infine l’informazione degli investitori sui progetti esistenti e futuri. Infine, secondo alcune interpretazioni, gli investimenti del Piano Juncker (e quindi le controparti a valere sui bilanci degli Stati membri dell’Unione Europea UE) non verrebbero contabilizzati (peraltro sino ad ora, tali interpretazioni non sono confermate da atti ufficiali) ai fine di parametri quali il rapporto tra l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni ed il Pil, sarebbe, quindi, un cavallo di Troia per quella golden rule (esenzione della spesa pubblica in conto capitale dal computo del vincolo al deficit annuale) a cui diversi governi (quello italiano in prima linea) mirano da tempo.
Un incremento degli investimenti avrebbe comunque effetti positivi anche sulla dinamica del rapporto debito/Pil e del rapporto deficit/Pil attraverso un aumento del denominatore più che proporzionale rispetto a quello del numeratore. Gli investimenti in infrastrutture non hanno dunque solo importanti moltiplicatori economici ma anche importanti “moltiplicatori fiscali”, nelle quali possono svolgere un importante ruolo anticiclico.
. Gli investimenti in infrastrutture hanno peraltro notevole importanza anche sotto un altro profilo, cruciale per la costruzione europea. Una delle idee fondanti dell’Europa è stata l’ambizione di realizzare un grande mercato unico nel quale la competizione aperta tra le imprese europee avrebbe prodotto innovazione, efficienza, produttività, dunque crescita e occupazione. Occorreva per ciò livellare il campo di gioco, al fine di costruire una virtuosa convergenza competitiva fra le economie europee. Per raggiungere questo obiettivo furono introdotte una rigida disciplina della concorrenza e una complessa normativa mirante ad evitare che politiche di aiuti di Stato potessero creare impropri vantaggi competitivi a vantaggio delle imprese di uno o più Paesi, dislivellando così il terreno di gioco tra gli Stati dell’UE (Bassanini, 2014).
Con il doppio obiettivo di illustrare il Piano (vero fiore all’occhiello di una Ce che appare sempre più pallida e sbiadita) il vice presidente della Ce, Jirki Katainen, sta facendo un road show che entro settembre 2015 lo porterà in 28 Paesi. In gennaio ha visitato per due giorni Roma ed incontrato esponenti del governo, dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali
Sul Piano permangono seri dubbi. Agli occhi della Ce, l’Italia è tra i Paesi che più hanno bisogno di un rilancio degli investimenti pubblici e privati per sostenere la ripresa economica, scalfire il pericolo della deflazione, aiutare la riduzione del debito. L’obiettivo del Feis è di attirare capitale privato. Molti investitori però sono cauti all’idea di partecipare all’iniziativa, anche se il Feis si sobbarcherebbe i rischi insieme al settore privato (assumendosi la prima perdita, ndr).
C’è una differenza nel profilo di rischio tra i prestiti della Bei e i prestiti del Feis. A questo riguardo, per dotare il bilancio comunitario di un cuscinetto di liquidità, la Ce intende creare un fondo di garanzia che attraverso contributi regolari provenienti dal proprio bilancio dovrebbe raggiungere gli otto miliardi di euro entro il 2020. L’obiettivo della Commissione è sempre di assicurare al Fondo un effetto leva di 15. Troppo? Molti lo temono. L’Esecutivo comunitario nota però che il recente aumento di capitale della Bei ha generato un effetto leva di 18.
Altro nodo riguarda il governo del Feis. Bruxelles e la Bei vogliono che la selezione dei progetti sia nelle mani di esperti indipendenti (il Comitato Investimenti), mentre gli Stati membri vogliono influenzare le scelte, e per certi versi condizionano i loro versamenti nel capitale iniziale ad assicurazioni su questo fronte. La Bei mette in campo la sua circa sessantennale esperienza in materia. La trattativa è in salita.
Un colpo al Piano è stato inferto il 23 febbraio 2015 dal presidente della Bei Werner Hoyer: “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi. Ciò sarebbe molto più importante di un’azione sugli investimenti pubblici” (‘Euronews, 2015).
Tante idee progettuali,ma progetti effettivamente ‘cantierabili’ e poche certezze. Tanti impegni pubblici, pochi privati. Ma soprattutto poca innovazione. Il Piano Juncker lascia più di qualche perplessità alla Bei, l’istituto chiamato a un ruolo centrale nell’attuazione della strategia dell’esecutivo di Bruxelles. Ma al di là dei numeri di rito, è sugli scenari futuri che si concentra l’attenzione della Bei. “L’obiettivo del 2015 è passare dalla ripresa economica al rilancio della competitività attraverso investimenti e innovazione”, sottolinea Hoyer. Ma a Lussemburgo – sede della Bei – non mancano perplessità. “Non vedo abbastanza progetti per il settore privato”, ammette Hoyer. Un problema, visto che serve il coinvolgimento dei privati perchè il piano Juncker funzioni. “Vedo progetti orientati principalmente verso il settore pubblico”.
Ma c’è di più. “Si è evidenziato tanto il gap di investimenti, ma in Europa c’è un problema maggiore di gap di innovazione”. Il gap di investimenti in innovazione, da sola, vale, secondo la Bei, 130 miliardi di euro, circa la metà del piano Juncker (che vale 315 miliardi). L’innovazione oggi la fanno le imprese, dunque i privati. Per cui a detta della Bei “occorre fare in modo che progetti privati in ricerca e sviluppo, quelli che permettono di avere innovazione, possano avere accesso agli strumenti finanziari dell’Ue”.
Ciò indica un cambio di strategia politica. La Bei coopera con i commissari interessati, vale a dire Jyrki Katainen (Crescita e investimenti), Pierre Moscovici (Affari economici) e Valdis Dombrovskis (Euro), ma è il caso “iniziare a collaborare di più con Frans Timmermans e Kristalina Georgieva”, commissari rispettivamente per la Migliore legislazione e il Bilancio. “Il Feis per gli investimenti da solo non risolve i problemi”, sottolinea Hoyer. “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”.
Perché Hoyer ha parla solamente adesso a fine giugno, dopo tre mesi dalla presentazioni del ‘Piano’? Le ragioni sono almeno tre:
a) Da un lato, a Bruxelles ed in alcuni capitali europee (tra cui Roma) non si è mai voluto ammettere che sette anni di recessione hanno avuto effetti deleteri sulla preparazione di progetti. Le imprese combattevano per sopravvivere più che per ampliare gli impianti esistenti o crearne di nuovi. La spesa in conto capitale si è fatta sempre più modesta: in Italia è passata dal 3% del Pil negli Anni Ottanta a meno dell’1% e appena il 20% dell’apposito fondo per la progettazione creato nel 1999 è stato utilizzato. Quindi, semplicemente mancano i progetti “pronti”, “cantierabili” e con effettive ricadute positive sull’economia del Paese.
b) Da un altro, la nuova crisi greca (e l’opposizione nei confronti dell’unione monetaria crescente in molti Paesi) ha reso tutti più cauti. La calma dei mercati finanziari viene interpretata come la quiete prima della tempesta. Su ciò pesa la situazione degli istituti di credito; le voci della possibile istituzione di una bad bank non incoraggiano certo ad investire.
c) Da un altro ancora, la situazione ad Est (leggi Ucraina) e nel Mediterraneo (leggi Libia). Nessuno ha sino ad ora smentito le stime che un eventuale intervento in Libia contro l’Isis costerebbe 15 miliardi di euro al mese, che cadrebbero in gran misura sui contribuenti europei, spiazzando altri obiettivi.
Sotto il profilo tecnico, il problema più serio è riassunto in a). Il ‘Piano Juncker’ fa appello principalmente alla finanza privata (l’apporto pubblico servirebbe principalmente a migliorare ed innalzare la valutazione del mercato sul singolo sul progetto e su ‘grappoli’ , per usare la terminologia francese, o pacchetti, per utilizzare quella anglosassone, di progetti). Secondo i dati del Cresme nel periodo 2001-2011, solo 45 progetti, su un totale di 3.600 iniziative di Public Private Partneship (PPP) messi a bando (sopra i 10 milioni di euro), hanno raggiunto il Financial Close (1,25%).” (Bellicini, 2015). La finanza privata non manca in un Paese come l’Italia in cui i risparmi delle famiglie hanno raggiunto i 3800 miliardi ma non si incanala in PPR, E’ possibile che le banche di sviluppo o promozionali siano percepiti come canale migliore per investimenti di lungo periodo ed a rendimenti contenuti ma a basso rischio. Ciò apre il tema del ruolo delle banche di sviluppo o promozionali nel ‘Piano Juncker’ e non solo – tema su cui, come si è detto, si attende una Comunicazione della Ce per la prossima estate. Una stesura preliminare è in discussione tra i Ministeri degli Stati membri dell’UE.
L’ apporto delle ‘ casse’ e le’banche’ nazionali di investimento al finanziamento prenderà’ varie forme, nel caso in cui prevalesse la partecipazione con titoli di proprietà (equity) l’ effetto moltiplicatore, stando all’ esperienza accumulata finora, potrebbe perfino essere superiore alla formula 1 a 15. L’ aumento di capitale della Bei dal 2012 al 2013 ha generato un effetto moltiplicatore di 1 a 18. Nell’ ambito del programma Cosme della Ce (sostegno alle Pmi) il moltiplicatore e’ stato stimato di a 20. Nel testo del regolamento e’ scritto che possono essere coperti da garanzie Ue “prestiti Bei, garanzie, contro-garanzie, strumenti del mercato dei capitali, ogni altra forma di strumenti di finanziamento o credito, partecipazioni ‘ equity’ o quasi ‘ equity’, inclusi attraverso banche nazionali di promozione o istituzioni, piattaforme d’investimento o fondi”. In sostanza i governi dei grandi paesi Ue hanno ritenuto piu’ conveniente assicurarsi un ruolo diretto nel contributo al finanziamento dei progetti attraverso le ‘ piattaforme’ per gli investimenti che non assicurarsi lo sconto della quota versata nel capitale del Fondo grazie alla flessibilità’ delle regole dei conti pubblici. Anche perché’, almeno in teoria, potrebbero poi essere scontati gli investimenti effettuati da entità’ pubbliche la cui spesa rientra nei calcoli sull’ indebitamento. Tali piattaforme consistono in ‘ veicoli speciali’, conti gestiti, accordi fondati su contratti di cofinanziamento o
3. I Conti delle Infrastrutture Il ‘Piano Juncker’ per ora contiene soltanto alcune promesse che potrebbero diventare altrettante illusioni oppure essere il grimaldello per avviare la crescita dell’investimento. Tuttavia, è innegabile il fabbisogno di infrastrutture nell’UE. Dati Bei affermano da anni che il Nord Europa è dove il fabbisogno è maggiore a ragione del sovraccarico della rete dei trasporti (Wagenwoort, R. De Nicola C., Kappeler A. 2011) Soffermiamoci, a titolo indicativo, sul nostro Paese. In Italia, pochi investimenti pubblici si accompagnano ad un non adeguato livello delle infrastrutture. Su 17mila chilometri di rete ferroviaria, solo il 5,4% è ad alta velocità, mentre in Francia si raggiunge il 6,7% e in Spagna il 13,5%. Il ritardo interessa anche il comparto tecnologico: la fibra ottica risulta ancora poco diffusa e la velocità media per lo scarico dei dati raggiunge livelli pari solo a poco più della metà di quelli francesi”.
Gli stessi documenti di finanza pubblica confermano che per gli investimenti delle pubbliche amministrazioni non ci sarà alcun rilancio, almeno in termini di spesa complessiva. C’è, invece, da aspettarsi piuttosto un’ulteriore flessione. È quanto si legge nel Def alla voce del rapporto investimenti fissi lordi/Pil: nel 2013 questo valore si è fermato all’1,7%, peggio di quanto fosse previsto dai governi Monti e Letta (1,8%), mentre la previsione 2014 lo colloca all’1,6%, poi all’1,5% nel 2015 e 2016, all’1,4% nel 2017 e 2018. Colpisce anche la riduzione degli investimenti nel 2013, con una caduta dell’ordine del 10%, da 29.979 a 27.132 milioni di euro e la contrazione del rapporto investimenti /pil di due decimali di punto da 1,9% a 1,7% (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2014).
La riduzione prevista dal Def riguarda anche i valori assoluti degli investimenti fissi lordi, che nella gran parte sono lavori infrastrutturali. Anche qui la tendenza è tutta in discesa: dai 25.730 milioni del 2014 ai 24.835 del 2015 ai 24.453 del 2016, per poi accennare a una leggera risalita nel 2017 (24.857) e nel 2018 (25.019). Dal 2011, quando gli investimenti fissi lordi ammontavano a 31.907 milioni, al 2014 si sono persi circa 6,1 miliardi di investimenti annui, circa il 20%
È soprattutto il rapporto investimenti fissi lordi/pil a dare però la portata di come la spesa in conto capitale del settore pubblico arranchi ormai da decenni, con un’accelerazione della caduta nell’ultimo quinquennio. Il rapporto investimenti fissi lordi/Pil era del 3,5% nel 1981, quando la politica di debito pubblico era centrale, per poi scendere al 3,1% nel 1991 e al 2,4% nel 2001. Il PPP viene indicato come strumento di finanziamento dei privati alternativo a quello pubblico, immaginando anche misure di accorpamento delle concessioni e di efficientamento dei lavori da realizzare. Sino ad ora l’esperienza non è stata incoraggiante (Bellinci, 2015). Si tratterà di mettere a regime le varie forme di incentivi fiscali esistenti e magari estenderle anche a infrastrutture immateriali come la banda larga.
Qualsiasi analisi delle politiche relative alle infrastrutture richiede elementi quantitativi di base; ad esempio, indicatori della spesa per infrastrutture in termini di Pil. Tale elementi quantitativi sono difficilmente comparabili, come rilevato dalle recenti analisi della Bei (Wagenwoort, De Nicola, Kappeler, 2011) e della stessa Banca D’Italia (Balassone,.Casadio, 2011) Come ricordato nel lavoro Bei citato, la definizione che sembra più sensata (e che è più frequentemente utilizzata) è quella proposta da Edward Gramlich una ventina di anni fa che, al termini di una dettagliata rassegna della lettera economica in materia, restringe il campo essenzialmente alle infrastrutture fisiche (strade, ponti, ferrovie, porti, idrovie smaltimento di rifiuti), specialmente se in condizione di monopolio naturale (Gramlich, 1994 e ,per una sintesi, Gramlich 2007). Lo stesso lavoro Bei sottolinea che tale definizione include esclusivamente l’infrastruttura “economica” , escludendo quella “sociale” (scuole , ospedali). A mio avviso , l’esclusione è molto più netta da quanto appaia nel lavoro Bei poiché da circa trent’anni sono varie forme di capitale “umano” e di “capitale sociale” (North, 1994) sono considerate le leve per la crescita inclusiva e lo sviluppo endogeno (per una rassegna, Pieterse 2001; in questa accezione , per il “sociale” come “scuole” e “ospedali” la componente fisica (“bricks and mortar” , mattone e cemento) raramente supera più del 10% della spesa e ciò che conta sono i flussi annuali (ovviamente capitalizzabili) per assicurarne il buon funzionamento.
Di conseguenza, un’interpretazione di cosa sono le infrastrutture tale da includere queste componenti, pur se giustificata sotto il profilo dell’analisi economica, comporterebbe l’aggiunta di spese pubbliche e private che, sotto invece, il profilo contabile sono di parte corrente. Paradossalmente, in Italia mentre negli ultimi sette anni il rapporto investimenti pubblici per infrastrutture è sceso (raffrontando i conti pubblici e la contabilità economica nazionale da 2.5% a circa 1% del Pil – si aggirava sul 3,5% negli Anni Ottanta-, il rapporto sarebbe rimasto sostanzialmente stabile (attorno al 18% del Pil) includendo le spese per istruzione e sanità quelle maggiormente dirette al capitale umano ed al capitale sociale. Una delle ragioni per cui non è stata accettata,a livello dell’eurozona, l’ipotesi di una “golden rule” tale da esentare le spese per il capitale dal computo del rapporto tra spesa pubblica e Pil ai fini del “patto di crescita e di stabilità”l, risiede proprio nella difficoltà di definire, in una visione moderna del pensiero economico, cosa debba o non debba rientrare nel concetto di spesa per investimento (Breuss, 2007). Cosa includere e cosa non includere nella definizione di cosa è e cosa non è “infrastrutture” (al di là di quelle fornite dalla statistica economica e dalla contabilità economica nazionale, di solito basta su Gramlich) diventa elemento essenziale sia per l’allestimento e la valutazione delle politiche per le infrastrutture , sia per finalità direttamente operative su cosa posa essere considerato finanziabile ad esempio da parte della Cassa Depositi e Prestiti (CPD) e delle istituzioni appartenenti al Long Term Investment Club (LTIC).
Occorre, poi, sottolineare un aspetto sollevato , sempre circa venticinque anni fa, dall’allora direttore del Congressional Budget Office, Alice Rivkin(Rivlin 1991): in un’economia avanzata e matura – Alice Rivkin guardava agli Stati Uniti ma si può fare un ragionamento analogo per l’Europa in generale e per l’Italia in particolare- le spese infrastrutture fisiche differiscono in misura significativa da quelle che caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo: nei Paesi maturi riguardano non tanto la creazione di nuove infrastrutture fisiche quanto l’ammodernamento e la manutenzione straordinaria di quelle esistenti – e , di conseguenza, assume un ruolo specialmente importante il dibattito su come contabilizzare i “costi accantonati” (in gergo i sunk costs) mentre, di converso, esternalità ed interdipendenze e prezzi ombra di alcuni fattori (e.g. lavoro) sono centrali nell’analisi economica di nuove infrastrutture fisiche.
Queste considerazioni sono utili non unicamente sotto il profilo metodologico ma anche per spiegare , da un canto, il differente grado e la differente natura di dotazione in infrastrutture tra varie aree d’Europa e d’Italia (aspetto descritto in modo accurato in Balassone e Casadio, 2011) ma anche i differenti effetti della crisi in corso dal 2007 tra il gruppo originario, o quasi, di Stati dell’Unione Europea e gli Stati neo-comunitari (analizzato in Wagenwoort, De Nicola, Kappeler, 2011). Nell’UE a 15, in effetti, c’è stata una marcata riduzione della spesa per infrastrutture secondo la definizione di Gramlich, mentre negli Stati neo comunitari la flessione è stata breve e poco marcata. Nel primo gruppo, i programmi di ammodernamento e di manutenzione straordinaria potevano essere posposti; nel secondo, invece, ritardi in questo campo avrebbero reso molto più lunga e molto più difficile la convergenza con il resto dell’UE anche in base ai teoremi fondamentali della teoria dell’integrazione economica (Balassa, 1961.). Nel primo gruppo, infine, c’è stata una rapida espansione della spesa per il welfare (indennità di disoccupazione, ed altri ammortizzatori sociali) che secondo un’interpretazione estesa del concetto di “infrastrutture” è necessaria a mantenere quel capitale umano e quel capitale sociale che a differenza del capitale fisico si deteriora se non utilizzato (Galor, 2011; Pennisi, 2011).
Negli anni Cinquanta sono state realizzate numerose grandi opere perché c’era una volontà politica che si fondava su un ampio consenso (ceto politico, imprese, sindacati e cittadini). Allo stesso modo per l’opinione pubblica in passato la costruzione di una nuova opera era per definizione un’opportunità, oggi tale percezione non è scontata. Soprattutto, c’era l’esigenza di costruire l’infrastruttura primaria per lo sviluppo del Paese. A partire dalla fine degli anni Novanta, invece, le esigenze principali sono state per il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutture esistente, un’esigenza molto più complessa sotto il profilo tecnico, molto più difficile da valutare sotto quello economico e finanziario e molto meno attraente ai fini della costruzione e gestione del consenso. Inoltre, il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno dovuto misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti normative nonché con la sempre maggior carenza di risorse finanziarie che andava a influire sulle scelte politiche. Ciò ha cambiato il complesso del ciclo di progetto, le sue regole di governance e il modello normativo di riferimento.
4. Un ‘caso studio’: la Legge Obiettivo Un ‘caso di studio’ eloquente della scarsa capacità di progettare sono i ritardi nell’attuazione della Legge Obiettivo che avrebbe dovuto accelerare spese in infrastrutture considerare prioritarie e che venne lanciata con forte supporto politico. A fine 2011 un documento Cnel di Osservazioni e Proposte (Cnel, 2011) concludeva che “una condivisione dello “status quo” delle infrastrutture in Italia da parte delle amministrazioni, delle imprese e dei cittadini appare lontana se si considera che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha ritenuto che l’anno che sta per chiudersi si configuri come un anno di cerniera tra un decennio del “fare”, quello che va dal 2001 al 2010, e il prossimo decennio, quello che va dal 2011 al 2020, che si caratterizzerà come il decennio del “fruire”. Ciò implica non tanto prevedere procedure selettive di nuovi interventi, di nuovi progetti, ma piuttosto misurare le reali ricadute che gli interventi programmati, progettati, e in molti casi appaltati, producono sul Paese. La tesi formulata dal Ministero contrasta però con i dati dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati che dal 2004 monitorizza l’avanzamento degli interventi previsti dalla cosiddetta legge obiettivo (delibera CIPE n. 121/2001) Tale osservazioni sono valide anche oggi.
Attività di programmazione
Anno Opere Interventi Sotto-interventi Costo complessivo (MLD)
2001 228 373 188 125,8
2010 348 753 358,0
Stanziamento effettivo delle risorse (in miliardi di €)
Valore complessivo dei progetti programmati nella Legge Obiettivo (2010) Valore dei progetti approvati dal CIPE Valore complessivo dei Mutui contratti Somme effettivamente erogate
358,00 14,09 8,83 2,50

Fonte: Servizio Studi della Camera dei Deputati, 2011
L’ingente costo complessivo programmato dalla Legge Obiettivo (358 miliardi di €) stride, poi, con il modesto volume finanziario delle opere effettivamente approvate, nell’arco di ben dieci anni, dal CIPE (14,1 miliardi di €) e del quasi inesistente ammontare delle risorse effettivamente erogate dal 2001 ad oggi (2,5 miliardi fra l’altro ripartite in ben 32 opere). I pochi progetti avviati sono limitati nel loro svolgimento dal contenzioso che, contava, al 28 luglio 2009, 259 ricorsi amministrativi e giurisdizionali (176 promossi da privati, 62 da enti pubblici e 21 da associazioni di cittadini). I dati sono confermati dai rapporti degli anni successivi: all’ultima conta (Camera dei Deputati, 2015), sono stati completati lavori per 23 miliardi sui 285 programmati , ed i costi di realizzazione sono aumentati del 40% negli ultimi dieci anni.
La contrazione della capacità di realizzazione non ha determinato né un riesame dei criteri di priorità, né una razionalizzazione della spesa e neppure una politica di sviluppo. Sebbene le informazioni disponibili non consentano confronti internazionali sistematici, esse tuttavia indicano che i costi medi di realizzazione sono relativamente elevati nel nostro Paese, sia per le autostrade, sia per l’alta velocità ferroviaria. Sul divario rispetto agli altri paesi europei, oltre alle condizioni orografiche e di antropizzazione del territorio, hanno inciso anche scelte tecniche. Anche i tempi complessivi di realizzazione sono mediamente più lunghi e gli scostamenti di tempi e di costi di realizzazione, rispetto alle stime iniziali, superiori a quelli rilevati negli altri Paesi europei.
Su tempi e costi di realizzazione influiscono, oltre ai diffusi fenomeni di illegalità e ai contenziosi e lo scarso coordinamento tra i diversi livelli di governo; il ridotto utilizzo di valutazioni standardizzate dei costi e dei benefici economici e sociali dei progetti; le carenze nelle procedure di affidamento dei lavori maggiormente utilizzate, che spesso non garantiscono la selezione dell’offerta migliore.
Dalla fine degli anni Novanta a oggi, i vari Governi che si sono succeduti nel corso delle legislature sono intervenuti in più riprese nel settore delle infrastrutture, sia sul versante della riorganizzazione dell’offerta, proponendo un nuovo schema di accesso al mercato delle opere pubbliche grazie al varo delle Società Organismo di Attestazione (SOA) , nel contesto della revisione dell’impianto normativo degli appalti pubblici; sia sul versante della domanda, stabilendo due principi fondamentali per l’intervento dello Stato nelle infrastrutture pubbliche: la snellezza delle procedure, la concentrazione delle risorse finanziarie scarse su un certo numero di progetti prioritari (Legge Obiettivo 2010).
L’esperienza del primo decennio di applicazione non ha prodotto gli effetti sperati. Gli ultimi quattro anni non hanno evidenziato miglioramenti. Il sistema di accreditamento delle SOA ha rappresentato un ulteriore stimolo alla staticità, mentre l’endemico ritardo dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione ha di fatto consentito solo a poche grandi imprese di rimanere attive. di rimanere attive solo poche grandi imprese. L’enfasi posta sulle opere strategiche proposte dalla Legge Obiettivo si è impantanata all’interno di una amministrazione non adeguatamente preparata a gestire le innovazioni normative. Soprattutto, l’autorità politica non si è assunta fino in fondo la responsabilità di selezionare le priorità arrivando a identificare fino a ben 348 opere strategiche. Nel corso di questi ultimi dieci anni si è dunque ampliata la distanza che separa gli obiettivi del quadro normativo di riferimento dalla realtà dell’infrastrutturazione strategica del Paese.
La distanza tra obiettivi e realizzazioni è sintetizzata dal confronto tra il punto di vista del Governo e del Ministero preposto, da un lato, e il dato fornito dal Servizio Studi della Camera dei Deputati, dall’altro (evidenziato nelle precedenti tabelle), nonché dalle considerazioni piuttosto scettiche dei rappresentanti di organizzazioni ed enti che hanno interagito con il Gruppo di Lavoro del Cnel. Le misure fisiche di dotazione infrastrutturale, secondo le analisi del Servizio studi della Banca d’Italia, suggeriscono la presenza di un divario persistente tra l’Italia e i principali Paesi europei nonostante negli ultimi tre decenni la spesa pubblica per investimenti italiana, in rapporto al PIL, sia stata superiore a quella media di Francia, Germania e Regno Unito.
Il tema delle infrastrutture in Italia, tuttavia, non teme confronti dal punto di vista dell’approfondimento scientifico e di analisi. In proposito, nel corso delle audizioni sono stati ricordati almeno tre documenti ricchi di studi e approfondimenti usciti negli ultimi mesi:
? il primo, è un documento di programmazione: il Piano nazionale della Logistica 2011-2020, approvato dalla Consulta dell’autotrasporto e della logistica e attualmente in discussione nelle aule parlamentari;
? il secondo è un repertorio delle principali correnti di pensiero intorno alla questione: “Le infrastrutture in Italia:dotazione, programmazione e razionalizzazione”, a cura della Banca d’Italia;
? il terzo, infine, è un approfondimento giuridico-istituzionale: “Le infrastrutture strategiche di trasporto: problemi, proposte e soluzioni (non ancora disponibile per la diffusione) elaborato dalle Fondazioni Astrid, Respublica e Italiadecide per conto del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti.
Dai documenti citati emerge che le sole inefficienze della logistica comporterebbero, secondo il Piano Nazionale della Logistica, un costo di 40 miliardi di euro l’anno. Un primo passo per affrontare i problemi infrastrutturali del Paese consiste nell’appurare quali e quante siano le risorse disponibili e quali siano le priorità strategiche da privilegiare tra quelle proposte dagli enti di spesa, in primis dai Ministeri e dalle Regioni .Al tempo stesso, dobbiamo porre rimedio all’incapacità di progettare e realizzare che palesiamo. Secondo le analisi del Cresme (Bellicini, 2015) i grandi progetti (sopra i 500 miliardi ), ci sono e vengono avviati ma se non gestiti al centro si frenano o vengono frenati. I progetti medi e piccoli (tra 50 e 500 miliardi) non riescono neanche a decollare se non gestiti al centro. I piccoli progetti (sotto i 50 miliardi) necessitano un pool centrale di expertise a supporto dei comuni che riduca drasticamente l’inefficienza con contratti e bandi tipo standard , formazione, assistenza tecnica e gestione on line trasparente dei processi con informazioni trasparenti. In questo campo, l’acquisto e la gestione della banca dati Cresme è il punto di partenza e la CDP potrebbe diventare il grimaldello. Ciò comporta, ben inteso, una centralizzazione di progettualità e procedure di attuazione che contrasta con il decentramento degli ultimi tre lustri.
5 La politica per le infrastrutture nel Piano Nazionale di Riforme Nel Programma Nazionale di Riforme, Pnr (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2014), la politica per le infrastrutture è indicata , in ordine di priorità, come quarto strumento di azione di governo per il rilancio dell’economia nazionale, dopo la riforma fiscale, il meridione ed il lavoro ma prima di altre riforme considerate di rilievo nell’arco della legislatura (edilizia privata, ricerca e sviluppo, istruzione e merito, turismo, agricoltura, processo civile, pubblica amministrazione e semplificazione). L’elenco – occorre rilevarlo – appare più come un ordine di priorità “implicito” (quale indicato nella premessa del documento) che come un ordine di priorità “esplicito”, espresso in una funzione obiettivo oppure in una funzione di benessere sociale formalizzata al fine d’ordinare programmi e progetti o di attribuire ponderazioni a costi, benefici, effetti ed impatti afferenti alle varie classe di reddito o di consumo. Nelle oltre cento pagine del Pnr, appena tre vengono dedicate alle infrastrutture intese come “opere pubbliche” in senso stretto, un’interpretazione, quindi, rigorosa ma restrittiva, rispetto alla gamma di definizioni passate succintamente in rassegna nel primo paragrafo di questa nota. Circa due terzi del documento sono dedicati al programma di stabilizzazione di finanza pubblica nel quadro del Fiscal Compact.
In materia di infrastrutture/opere pubbliche nel Pnr vengono presentate stime degli effetti macro-economici della realizzazione del programma di infrastrutture delineato (in essenza le opere pubbliche previste nella Legge Obiettivo), ma né nel documento né nell’allegato infrastrutture (Camera dei Deputati, 2014) né nell’attenta analisi effettuata dal servizio del bilancio del Senato della Repubblica e dal Servizio Studi della Camera (Senato della Repubblica-Camera dei Deputati, 2014) si ricavano le informazioni necessarie per apprezzare la validità delle stime econometriche effettuate, in particolare non viene precisata né la modellistica utilizzata né la qualità dei dati disponibili.
Soprattutto, il lettore ha l’impressione che ci si riferisca essenzialmente a quelli che vengono spesso chiamati gli “effetti di cantiere” di breve periodo (ossia al valore aggiunto attivato dalla spesa per opere pubbliche nel 2011-2013) senza tenere conto dagli impatti a volte molto più significati sull’aumento di capitale fisso sociale e quindi sulla crescita della produttività. In breve, si trae la sensazione che nonostante le aspettative lanciate una decina di anni fa con la Legge Obiettivo, oggi perduto valore nella strategia di politica economica. Mancano elementi per esprimere una valutazione sulle ‘misure acceleratorie’ adottate principalmente nel 2013.
Occorre sottolineare che a conclusioni analoghe si giunge analizzando il censimento più recente sulle infrastrutture/opere pubbliche in finanziamento tramite sia fondi esclusivamente pubblici sia varie forme di partnership tra pubblico e privato (Reviglio, 2011). Il documento presentato ad un seminario ristretto di operatori italiani e stranieri del settore aggiorna in misura significativa i dati resi disponibili negli studi della Banca d’Italia (Balassone, Casadio, 2011) e conferma essenzialmente la riduzione del ruolo delle infrastrutture/opere pubbliche nella strategia di riforme e di crescita dell’Italia. A rilievi dello stesso tenore si giunge esaminando alcuni tra i documenti da istituti privati di analisi e ricerca , ad esempio quello più recente del Centro Europa Ricerche (Cer, 2011) e lo stesso documento di osservazioni e proposte del Cnel (Cnel; 2011) sul Pnr; nei documenti Cer e Cnel, al pari di quello dei servizi di bilancio e studi di Senato e Camere, le osservazioni e proposte riguardano sia il Pnr sia il Programma di Stabilità
Da questi documenti (e da altri resi disponibili negli ultimi anni ) si ricava inoltre che la lentezza (e la poca chiarezza di regole) in materia di progettazione, gare e contrattualizzazione , il frequente mutamento del quadro regolatorio, la scarsa priorità data alla predisposizione di studi di fattibilità ed alla valutazione delle infrastrutture/opere pubbliche (ex ante, in itinere ed ex post) sono elementi che frenano la definizione e l’attuazione di una politica per le infrastrutture più delle mancanza di risorse; alla riduzione delle risorse pubbliche derivante dai vincoli di bilancio fa riscontro invece in Italia ed all’estero un aumento di risorse private alla ricerca di investimenti di lungo periodo a rendimenti da considerarsi adeguati ed a rischio contenuto (ad esempio, De Carolis ., Giorgiantonio , Giovanniello 2011); Bassanini, Reviglio 2011, Reviglio, 2011).
Occorre, a questo punto, chiedersi se il ruolo comparative ridotto della politica per le infrastrutture/opere pubbliche nel Pnr sia da attribuirsi alla maggiore urgenza e priorità di altre riforme, specialmente nel campo della finanza pubblica e del fisco, oppure alla constatazione che in Paesi maturi, come l’Italia, le politiche per le infrastrutture riguardano principalmente ammodernamenti e completamenti piuttosto che nuove reti (e per questa ragione suscitano minore attenzione che in Paesi od aree emergenti od in ritardo di sviluppo) oppure ancora che non sia stato metabolizzato il nesso tra infrastrutture (anche nel senso ristretto di opere pubbliche) e riforme.
Tale nesso – si tenga presente – è stato al centro delle strategie della Banca mondiale (prima) e delle altre maggiori Banche regionali di sviluppo, poi, (principalmente del Banco interamericano di sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo) ma pare sia stato poco metabolizzato nell’esperienza europea ed ancor meno in quella italiana (Bassanini, Pennisi, Reviglio, 2015). Sulle strategie ed esperienze in questo campo specifico da parte della Banca mondiale, del Banco interamericano per lo sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo esiste una letteratura smisurata sin dagli Anni Ottanta; le esperienze sono diventante particolarmente ricche negli ultimi vent’anno in seguito ai lavori fondamentale di Dixit e Pindyck su investimenti, riforme ed incertezza (Dixit, Pindyck 1994) e di Adler e Posner su analisi economica dell’investimento e decisioni in materia di regolazione (Adler, Posner, 2006). In Europa , non manca letteratura anche empirica (Bezzi, 2006, Chervel, 1995; Ferrara, 2010; Pennisi, Scandizzo, 2003), ma non sembra sia stata metabolizzata dai policy makers il ruolo delle infrastrutture (se opportunamente soggette a valutazione) come grimaldello per riforme della normativa e della regolazione.
6. Politiche europee per le infrastrutture Da decenni , da quando il ‘Piano Juncker’ era ‘nel grembo degli Dei’, la politica d’integrazione europea pone l’accento sulla esigenza di notevoli investimenti per le infrastrutture al fine sia di migliorare la competitività del continente sia rafforzare la coesione all’interno dell’Unione (per una sintesi delle misure effettuate prima dell’unione monetaria, Triulzi, 1999; gli anni più recenti utile consultare oltre al sito della Commissione Europea, www.euinfrastructure.com). Interessante notare che anche il filone di pensiero che ha coerentemente espresso le critiche più severe nei confronti del coinvolgimento ritenuto eccessivo da parte delle istituzioni europee, ed in particolare, da parte della Ce, in attività che dovrebbero rientrare nella sfera esclusiva degli Stati membri (Vibert,2001) e da chi ha sempre sostenuto l’esigenza di una politica di bilancio molto rigorosa (Magnifico, 2008; Valli 1999). La letteratura sulla politica europea per le infrastrutture fisiche, specialmente le reti di collegamento Ten-T è sterminata . E tale è anche quella sulle infrastrutture immateriali ad alto contenuto tecnologico. Alcune di queste infrastrutture interessano direttamente l’Italia in quanto , traversandola da Sud a Nord e da Ovest ad Est per migliorare i collegamenti europei, comportano nuovi snodi ed ammodernamenti del parco italiano d’infrastrutture. A riguardo è utile ricordare che è’ stato emanato un decreto legislativo di attuazione della Direttiva europea concernente l’individuazione e la designazione delle infrastrutture critiche europee), e la valutazione della necessità di migliorarne la protezione.
Il decreto stabilisce le procedure per l’individuazione e la designazione di infrastrutture critiche europee, nei settori dell’energia e dei trasporti, nonché le modalità di valutazione della sicurezza di tali infrastrutture e le relative prescrizioni minime di protezione dalle minacce di origine umana, accidentale e volontaria, tecnologica, e dalle catastrofi naturali. I sotto-settori riguardanti energia e trasporti, individuati sono:
• Energia: elettricità, petrolio, gas;
• Trasporti: trasporto stradale, trasporto ferroviario, trasporto aereo, vie di navigazione interna, trasporto oceanico, trasporto marittimo a corto raggio e porti.
Gli adempimenti relativi alla protezione delle infrastrutture previsti dal decreto in oggetto non sostituiscono quelli già stabiliti da disposizioni in vigore, ma sono da ritenersi integrativi.In particolare sono introdotte le seguenti definizioni, riprendendo quelle utilizzate dalla Direttiva:
• infrastruttura critica (IC): infrastruttura, ubicata in uno Stato membro dell’Unione Europea, che è essenziale per il mantenimento delle funzioni vitali della società, della salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale della popolazione ed il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un impatto significativo in quello Stato, a causa dell’impossibilità di mantenere tali funzioni;
• infrastruttura critica europea (ICE): infrastruttura critica ubicata negli Stati membri dell’UE il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un significativo impatto su almeno due Stati membri. La rilevanza dell’impatto è valutata in termini intersettoriali. Sono compresi gli effetti derivanti da dipendenze intersettoriali in relazione ad altri tipi di infrastrutture.
Le funzioni di individuazione e designazione delle ICE sono svolte dal Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione (NISP) che ha anche ll compito di coordinare l’elaborazione di direttive interministeriali contenenti parametri integrativi di protezione, elabora:
• entro un anno dalla designazione di un’ICE, una valutazione delle possibili minacce nei riguardi del sottosettore nel cui ambito opera l’ICE designata;
• ogni due anni elabora i dati generali sui diversi tipi di rischi, minacce e vulnerabilità dei settori in cui vi è un’ICE designata.
• viene anche richiesto alle amministrazioni centrali dello Stato di redigere ogni anno un piano pluriennale di infrastrutture.
Il decreto resta , a quel che se ne sa, sostanzialmente non applicato.
In parallelo, quasi, con la definizione di infrastrutture critiche, emerge l’esigenza di nuovi strumenti finanziario come gli “eurobonds” (Bassanini, Pennisi, Reviglio 2015, Bassanini, Reviglio, 2011) per il finanziamento delle infrastrutture da distinguersi da altre forme di obbligazioni europee finalizzate a ridurre il peso del debito sovrano di alcuni Stati .
Gli “Eurobonds” non sono un’idea nuova ed originale. Per questo Ne sono state fatte numerose formulazioni in passato. Ad esempio, già negli anni Sessanta, Alexandre Lamfalussy propose obbligazioni “europee” a supporto della politica agricola comune. Negli Anni Settanta, venne delineato un programma da François-Xavier Ortoli, all’epoca presidente della Commissione europea (giornalisticamente vennero chiamati “Ortoli Bonds”) di emissioni di obbligazioni “europee” che avrebbero avuto essenzialmente lo scopo di rilanciare occupazione e crescita tramite grandi investimenti in infrastrutture. Ne circolarono varie versioni, tutte preliminari: secondo alcune sarebbero stati emessi dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei), secondo altre direttamente dalla Commissione europea. “Eurobonds” vennero, poi, proposti, sempre in chiave di finanziamento dello sviluppo, nel “piano” Delors per la creazione del mercato unico europeo, approvato nel Consiglio Europeo di Madrid nel 1989; in effetti, quella delle obbligazioni “europee” è una delle parti del “piano” rimaste sulla carta. Lo stesso Delors ha rilanciato l’idea nel 2005.
Una proposta formulata da Mario Monti (Monti,2010), riguarda “Eurobonds” a più valenze, che verrebbero emessi da un’Agenzia europea per il debito ancora da istituire; in prima battuta, servirebbero ad alleggerire il debito “sovrano” di Stati iper-indebitati; in seconda, allo sviluppo, alla stregua degli “Ortoli Bonds” e dei “Delors Bonds”. In questo quadro, si colloca anche la proposta di “Eurobond” lanciati da Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker. Se ho ben compreso la proposta, ad emetterli sarebbe la nuova Agenzia ed sottoscriverli sarebbero i Tesori e le banche degli Stati iper-indebitati dell’Unione monetaria; in tal mondo si alleggerirebbe (a tassi e termini più conveniente) il fardello dei loro debiti (principalmente quelli con l’estero). Ciò potrebbe comportare una complessa revisione ( quindi, con annesse procedure di ratifica) dei Trattati, anche allo scopo d’istituire la nuova Agenzia; ove alla fine di questo processo, gli “Eurobonds” venissero in vita in forma sistematica (non episodica), probabilmente il nodo del “sollievo dal debito” sarebbe già stato sciolto in altri modi, ma resterebbe loro l’obiettivo di finanziare lo sviluppo e di facilitare l’integrazione del mercato mobiliare europeo. Al pari dei bond di Bei, di Banca mondiale, di banche regionali di sviluppo, gli “Eurobonds” potrebbero arrivare al dettaglio tramite i normali canali bancari ed essere acquistati dai risparmiatori al dettaglio. E’ difficile, però, argomentare che lo strumento servirebbe a facilitare l’integrazione di un mercato finanziario come quello dell’eurozona che appare già sufficientemente integrato (Fontana, Scheicher, 2010)
A mio avviso, la letteratura, benché vastissima, sugli “Eurodonds” ha analizzato in dettaglio gli aspetti giuridico-istituzionali e tecnico-finanziari dello strumento, ma non ha sufficientemente focalizzato sui suoi fondamentali economici. In effetti, i principali nessi teorici nella letteratura sugli “Eurobonds” si riferiscono alla teoria dei mercati finanziari, ed in specie alla teoria dell’efficienza dei mercati (finanziari), seriamente rimessa in questione proprio dalla crisi internazionale iniziata nel 2007 ed all’origine dell’aumento del debito pubblico e del debito sovrano con l’estero (Bordo, Landon-Lane, 2010).
Un approccio differente, anche se non necessariamente alternativo, sarebbe quello di esaminare le varie proposte relative agli “Eurobonds” sotto il profilo della teoria delle opzioni, in particolare quella delle opzioni reali e degli investimenti in condizioni di incertezza (Dixit, Pyndick , 1994). In effetti, l’acquisto di titoli ad alto rendimento di Stati le cui politiche economiche destano perplessità è un investimento in condizioni d’incertezza piuttosto che di rischio; le variabili di quadro generale sono tali e tante che non può essere valutato con tecniche anche raffinate di calcolo delle probabilità ma occorre, per una sua valutazione, costruire scenari contro fattuali e stimare “opzioni reali” di vario tipo (Pennisi, Scandizzo, 2003). Ciò vuole, innanzitutto, dire esaminare quale può, o deve, essere il “sottostante” dello strumento perché lo strumento medesimo possa essere efficiente ed efficace. Ciò comporta un chiarimento sugli obiettivi e, quindi, sulle modalità di funzionamento e sulle tecniche operative specifiche, dello strumento. In prima approssimazione ed estrema sintesi, il valore degli “Eurobonds” deve essere visto come derivante dalla qualità del “sottostante”. Le procedure di valutazione degli investimenti utilizzando l’analisi dei costi e dei benefici estesa alle “opzioni reali” comporta l’esame , e la discussione, delle opzioni reali ai soggetti interessati dal’investimento e la definizione di un consenso tra essi. In merito al “sottostante” , si possono fare varie ipotesi, di cui le tre principali possono essere le seguenti:
a) “Eurobonds” il cui sottostante è l’aderenza a politiche tale da minimizzare, in un contesto d’incertezza, il futuro aggravio del debito e del rischio di insolvenza. Si tratterebbe di strumenti analoghi al “policy-based lending” adottato da decenni, con alterno successo, dalle istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario). Rispetto ad altre aree, nell’”eurozona” il “policy based lending” viene facilitato, per certi aspetti, dal “patto di crescita e di stabilità” che ne fornisce un quadro di riferimento. Il “patto”, però, tratta principalmente di politiche di bilancio e di saldi aggregati da esse derivanti. Occorre chiedersi se sia sufficiente o si non si debba entrare in altri aspetti (privatizzazioni, liberalizzazioni, politiche sociali e previdenziali) che, a loro volta, sono il “sottostante” delle politiche di bilancio, e le determinano. Ciò comporta aspetti tecnici e politici non indifferenti. Da un canto, in molti Stati (ad esempio, l’Italia) mancano ancora i dati (quali una Sam_ Social Accounting Matrix aggiornata e credibile) per effettuare analisi che siano quantitative e, quindi, vengano considerate asettiche. Da un altro, analisi qualitative in merito a politiche possono essere facilmente tacciate di essere “biased” ovvero pregiudizialmente “orientate”. Da un altro ancora, “peers reviews” di politiche tra Stati dell’UE non sembrano avere mai brillato per efficacia.
b) “Eurobonds” il cui sottostante è la qualità di investimenti per la crescita, con effetti moltiplicativi keynesiani nella fase di cantiere e con aumento di capitale sociale (e, quindi, dell’aumento della produttività multifattoriale) nella fase a regime. Per questa tipologia, esistono metodi, tecniche e procedure di valutazione ex-ante e ex-post codificate da decenni ed in applicazione nei principali Stati UE, nonché guide operative della stessa Commissione UE (Florio, 2003). E’ tuttavia difficile vedere in che modo tali “Eurobonds” differiscano dalle obbligazioni Bei e Bers, anche esse essenzialmente ancora alla “quality of lending” come loro “sottostante” e dunque alla qualità della valutazione dei progetti d’investimento.
c) “Eurobonds” che potrebbero essere definiti “di scopo”, finalizzati, da un lato, a ridurre il fardello del debito e, parallelamente, a facilitare alcune politiche specifiche (quali privatizzazioni, le liberalizzazioni, alcune riforme di settore) in quelle situazioni in cui fosse necessaria “fresh money”, non solo finanza per il riscatto In tal caso l’utilizzazione degli “Eurobonds” verrebbe limitata , da un lato , ad una funzione analoga a quella dei “Brady Bonds” e, dall’altro, alla facilitazione di politiche ritenute prioritarie per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica e di crescita reale.
In ciascuna di queste tipologie (e nelle loro possibili combinazioni), da un canto, il “sottostante” sarebbe palese e trasparante, riguarderebbe l’economia reale e potrebbe essere valutato, consentendo ai contribuenti degli Stati “virtuosi” (chiamati a sostenere l’operazione) di effettuare scelte informate. Da un altro, sarebbe possibile orientare progressivamente la funzione obiettivo pertinente al “sottostante” sempre più verso la crescita dato che in ultima istanza la crescita economica è il rimedio necessario per ridurre il peso del debito ed il rischio d’insolvenza.
Nel concludere , occorre sottolineare che gli “Eurobonds” nelle loro varie accezioni altro non sarebbero che una forma di partnership pubblico-privato che può essere ottenuta in vari altri modi.

8. Parametri di Valutazione e Criteri di Scelta e per le Infrastrutture e per il ‘Piano Juncker’. Quale che sarà le scenario futuro europeo ed italiano per la progettazione ed il finanziamento delle infrastrutture nei prossimi anni , appare necessario riesaminare i parametri di valutazione per le singole operazioni ed i criteri per selezione, a fonte di inevitabili vincoli di bilancio, quelli che meglio contribuiscono agli obiettivi della società. Questo dovrebbe essere il primo compito del Comitato per gli Investimenti del ‘Piano Juncker’, se e quando verrà creato . Credo sia utile iniziare ad accennare a quella che potrebbe diventare una nuova linea di ricerca In sintesi, la caratteristiche del “dopo crisi” paiono essere due:
• La prima a carattere più generale interessa il mondo intero e riguarda come andare “oltre il Pil” come misura di benessere nazionale. Il Pil come misura di benessere nazionale è alla base di gran parte della manualistica sulla valutazione e selezione delle infrastrutture.
• La seconda , a carattere principalmente europeo, riguarda come andare da un modello di sviluppo che dalla fine della seconda guerra mondiale ha fatto perno sulla crescita trainata dall’export (e, quindi, ha ipotizzato crescenti disavanzi dei conti con l’estero Usa e saldi attivi invece in quelli dell’Europa con il resto del mondo) ad un modello di crescita basato invece sulla soddisfazione di bisogni collettivi interni all’Europa (infrastrutture, ambiente, capitale umano, salute, cultura, tutela del patrimonio di beni culturali e del paesaggio) e del miglioramento sostenibile, quindi, della qualità della vita.
Un’ampia rassegna dei tentativi per andare “oltre il Pil” è stata pubblicata da Marc Fleurbeay delle Università di Parigi “Descartes” e di Lovanio (Fleurbeay, 2009). Sul tema, sono in corso numerosi studi internazionali; in Italia ha cominciato ad operare una Commissione Cnel-Istat ( Cnel-Istat, 2014). Al momento , a mio avviso, il lavoro di Fleurbeay rappresenta, il meglio di quanto disponibile in un mercato spesso caratterizzato da saggistica approssimativa. Una sintesi efficace del secondo punto è nel breve ma eloquente saggio di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan (Guerrieri-Padoan, 2009); un frutto interessante del saggio può esse considerato il lavoro ‘Towards a New Pact for Europe) predisposto da un vasto numero di istituti europeo (Promoting the European Debate, 2014) proprio allo scopo di individuare una nuovo ‘grimaldello’ (ad esempio l’unione energetica) che faccia da motore all’Unione.
I lavori di Fleurbeay e di Guerrieri –Padoan sembrano distanti sia in termini di approccio (una rigorosa rassegna della letteratura, oltre 400 titoli, il primo; un pamphlet volutamente divulgativo per smuovere i decision maker il secondo) sia in termini di conclusioni ( problematico il primo sulle caratteristiche delle “serie alternative al Pil che sarebbero alle porte; più definitivo nelle sue conclusioni il secondo).Hanno, soprattutto, un nesso in comune che riguarda sia i Governi sia le imprese: nel “dopo crisi”: in linea con un affinamento della definizione e del mondo di computare il Pil che tenga conto di tre scuole di pensiero (l’economia del benessere, l’economia delle libertà, ed il perfezionismo contabile) , l’accento è delle politiche pubbliche e delle operazioni delle “intraprese private” dovrà essere sul medio e sul lungo periodo e non più sul breve periodo (che pare avere caratterizzato gli ultimi lustri).
Ciò ha una conseguenza implicita per di cui non credo ci sia ancora piena consapevolezza tra gli operatori : come valutare politiche , strategie ed investimenti a lungo termine, specialmente quelli caratterizzati da un lungo periodo di gestazione prima di fornire flussi di ricavi all’impresa e/o di benefici alla collettività.
Emergono questi spunti di riflessione:
1- Le politiche e gli investimenti privati (anche per le infrastrutture) devono remunerare gli investitori ad un tasso che non sia inferiore al costo opportunità del capitale. Quali misure adottare quando una politica od investimento abbia un valore economico per la collettività nel lungo periodo ( una gamma di investimenti che va dalla tutela del patrimonio artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre) ma che potrebbe avere risultati insoddisfacenti nel breve periodo. In passato, il divario veniva colmato da varie forme e guise di aiuto di Stato – oggi non più contemplabile a ragione non solo della normativa Ue ma anche dei vincoli di bilancio. Occorre, quindi, pensare di colmare il divario con la regolazione ; nazionale od europea? I grandi investimenti europei – ad esempio le reti trans europee – non dovrebbero essere il grimaldello per una regolazione europea? Specialmente una “regolazione” che dia certezze di stabilità e di non essere frequentemente mutata sotto la spinta d’interessi particolaristici pure di breve periodo.
2- Le politiche e gli investimenti pubblici (a supporto del miglioramento della qualità della vita) avranno effetti anche sulle generazioni future , che in molti casi ne saranno le principali beneficiarie. Ciò solleva due ordini di interrogativi. In primo luogo, secondo Ocse e Banca mondiale, il tasso di attualizzazione utilizzato per valutare l’investimento pubblico in molti Paesi UE (a lungo la Francia è stata un’eccezione) e dalla Commissione Europea riflette il vincoli di bilancio pubblico e misura il declino del valore sociale delle risorse pubbliche liberamente utilizzabili. Non è il caso di seguire invece la più antica proposta di Dasgupta-Sen-Marglin di scegliere un tasso di attualizzazione che rispecchi il tasso d’interesse sui consumi (Dasgupta,Sen Margling, 1972)? Secondo stime disponibili (anche da me effettuate) il primo approccio comporta un tasso di attualizzazione sull’8%, il secondo sul 2,5%; il primo non “cattura” quindi costi e benefici alla collettività nel lungo periodo Pennisi, Scandizzo, 2003). Né l’uno né l’altro, poi, “catturano” costi e benefici alle generazioni future : due scuole si confrontano su “come farlo”, ambedue sono cariche d’implicazioni di politica pubblica. Non è il caso di promuovere un’intesa a livello europeo?
3- Le metodologie di analisi delle politiche e degli investimenti , anche privati, hanno posto l’accento sin dagli anni Settanta su come coniugare efficienza (intensa nel senso di redditività) con efficacia (intensa nel senso di distribuzione del reddito e, in un secondo tempo, delle opportunità). In materia si sono sviluppati metodi, tecniche e procedure basate sulle “ponderazioni variabili” dei costi e dei benefici a seconda dei livelli di reddito o di consumo delle varie categorie di soggetti coinvolti nell’”intrapresa”. Nel Ventunessisimo secolo, ed in Paese avanzati ad economia di mercato, l’enfasi si deve spostare a come coniugare il breve e medio con il lungo termine. Dato che previsioni e scenari (specialmente se contro fattuali) a lungo termine, sono ardui da costruire con un grado realistico di accuratezza, non è il caso di spostare l’accento, nella CSR, dall’analisi del rischio all’analisi dell’incertezza?
4- La valutazione economica di grandi progetti (in grado di incidere sulle strutture), richiede, specialmente in un Paese con l’orografia come quella italiana (con montagne e necessità di viadotti e tunnel) una matrice di contabilità sociale. Quella dell’economia italiana è aggiornata dal 1994, perché dal 1996 sono stati drasticamente ridotti i fondi per lavori non richiesti dall’Eurostat. L’alternativa è la valutazione delle opzioni reali. Lavoro metodologico e sperimentale (nonché di formazione) effettuato negli Anni Novanta nei campi dei trasporti, del turismo e dei beni culturali, dalla Scuola Nazionale di Amministrazione è stato interrotto verso il 2008 e mai più ripreso.
Il Governo, e le sue strutture tecniche, in primo luogo, il Ministero delle Infrastrutture in collaborazione con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, dovrebbero rispondere a questi interrogativi per l’Italia e la Ce e la Bei a livello europeo ed , in parallelo, risolvere i nodi di scarsa progettualità e insoddisfacente realizzazione, ricordati in vari punti di questa nota.

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