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Il paradosso degli amministratori leghisti nella stanza (vuota)dei bottoni

«Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni ma non li ho trovati». Il copyright è di Pietro Nenni e la frase risale al primissimo centrosinistra, quando i socialisti entrarono al governo ma non riuscirono a lasciare il segno della loro presenza. Oggi qualcosa del genere sta accadendo ai governatori e ai sindaci leghisti che faticano a marcare il cambiamento e perdono così il favore dei propri elettori. La causa numero uno è sicuramente il patto di stabilità interno che vincola anche i Comuni virtuosi a non spendere ma la causa numero due è stata la sciagurata decisione del governo di abolire l’ Ici. Solo per parlare del Comune di Varese la tassa sulla prima casa rappresentava nel 2008 il 53% delle entrate tributarie e farne a meno per i sindaci si è rivelato un vero dramma. Se dal budget passiamo ai rapporti con le imprese la difficoltà di trovare i famosi bottoni è lampante. Appena insediato alla testa del Piemonte Roberto Cota tuonò contro la Bialetti, rea di delocalizzare e di chiudere in parallelo gli impianti di Omegna. Risultati concreti zero, l’ azienda è andata per la sua strada. Quando dalla Bialetti si è passati al confronto con la Fiat Cota è di fatto sparito di scena. Sergio Marchionne ha preferito come interlocutori (e compagni di scopa) Sergio Chiamparino e il suo vice Tom De Alessandri e quando Umberto Bossi ha dichiarato che avrebbe mandato il governatore negli Usa per controllare l’ evoluzione dei rapporti con la Chrysler in tanti hanno riso di gusto. Anche per la Indesit i leghisti avevano minacciato dal palco di Pontida fuoco e fiamme se avesse chiuso lo stabilimento di Brembate. Ma l’ azienda, anche in questo caso, ha tirato dritto e ha concluso un accordo con Cgil-Cisl-Uil, infischiandosene di Rosi Mauro e del suo sindacato padano. Con le Pmi non è che le cose siano andate granché meglio. Prima qualcuno aveva avuto la bella idea di aprire uno sportello per i Piccoli in via Bellerio, ma poi non se ne è saputo più nulla. Parce sepulto. L’ unico vero successo è stata la legge Reguzzoni-Versace per regolamentare il «made in» approvata in un battibaleno in stretto collegamento con i Contadini del tessile, un movimento di protesta nato a Busto Arsizio. Ma la legge si è impantanata a Bruxelles per l’ opposizione della Ue e si è aperto anche un doloroso contenzioso con il Pdl, che nella figura del commissario italiano Antonio Tajani si sarebbe schierato con la Ue. È vero che qua e là, in Lombardia o in Veneto, le amministrazioni a guida leghista hanno preso iniziative anti-crisi più disparate, dal lancio del brand «Made in Brescia» ai negozi di ortofrutta a km zero, ma nessuna di queste ha inciso minimamente. Il vicepresidente leghista della Regione Lombardia, Andrea Gibelli, che secondo i proclami dei giorni delle elezioni avrebbe dovuto giocare da stopper su Roberto Formigoni, si è inventato invece l’ Assessorato itinerante. Gira per le aziende della regione, La Padania lo fotografa ogni volta e siamo arrivati così alla ventottesima tappa. Ma il tallone d’ Achille dei leghisti non è quello di non saper ascoltare i Piccoli, caso mai di non avere i soldi per prendere le decisioni giuste. Anche perché in molte occasioni prevale la tendenza ad assecondare i mal di pancia locali e a mettersi a capo del «partito del no». A Rho il candidato sindaco della Lega, Fabrizio Cecchetti, è arrivato al ballottaggio a scapito di un esponente del Pdl. Ha accusato gli alleati di essere dei «cementificatori selvaggi» e di voler realizzare un centro commerciale nella ex Alfa di Arese. La verità è che nel sindacalismo di territorio sta emergendo un animo Nimby («non nel mio giardino»). I leghisti non amano le grandi opere e quindi non si applicano a discutere di Tav, di terzo valico per la Liguria o di collegamento con il Gottardo. Del resto ai tempi del nucleare il governatore del Veneto Luca Zaia si era dichiarato favorevole a patto che le centrali non fossero ubicate nella sua regione. Con l’ idea che visto che non ci sono soldi non si può progettare niente, Zaia si è applicato in primis a controllare i centri della spesa sanitaria. Ma nessuna delle iniziative che avrebbe dovuto prendere la finanziaria Veneto Sviluppo ha preso veramente il via, della metropolitana di superficie per il Veneto centrale non se ne parla più e persino il collegamento autostradale con Trento è derubricato. «È stata l’ alluvione a cambiarci i programmi» è la tesi dei sostenitori del governatore. La storia dei socialisti è istruttiva per il Carroccio, oltre che per la metafora di Nenni, anche per un’ altra costante. Quando non si riesce a marcare il cambiamento si finisce per dividersi. La cosa è passata sotto silenzio ma per la prima volta a Varese, nel Cremlino della Lega, il partito ha autorizzato i candidati alle Comunali a organizzare la lotta per le preferenze. Persino il vincitore della tenzone, l’ assessore Fabio Binelli che ha sbaragliato tutti, è rimasto perplesso e ha dichiarato alla Padania: «È un meccanismo che appartiene di più ai nostri alleati che a noi». A Treviso la battaglia è stata invece alla luce del sole. Il presidente della Provincia, Leonardo Muraro, che i suoi avversari chiamano «Mubarak», si è ammutinato contro il presunto buonismo di Zaia e del ministro Roberto Maroni verso gli immigrati e ha organizzato una lista civica ultraleghista, «Razza Piave», che ha preso più dell’ 11%. Ma non è questa la strada che porta a trovare i bottoni.

Fonte: Corriere della Sera del 21 maggio 2011

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