• domenica , 22 Dicembre 2024

Il Paese che spreca giovani e donne

L’Italia scoraggia le intelligenze, perché ha meno laureati degli altri Paesi avanzati, continua a produrne di meno, e non riesce nemmeno a dare un lavoro adeguato a tutti quanti, tanto che spesso i più brillanti vanno all’estero. L’Italia spreca energie di donne, perché troppe non lavorano rispetto agli altri Paesi avanzati; spreca le energie di molti giovani, costretti a lunghi anni di precariato con paghe magre e scarse prospettive di carriera . L’Italia sottoutilizza gli immigrati mentre ne sfrutta il lavoro, perché è incapace di offrirgli una prospettiva credibile di inserimento; sottoutilizza gli italiani del Sud, dove la malavita scoraggia l’impresa legale e protegge il lavoro nero.
Così, guardando alle persone, si può riassumere la malattia di un Paese la cui economia non cresce perché non aumenta la produttività. In concreto vuol dire che continuiamo a perdere tempo prezioso per fare cose molto semplici, che non ci impegniamo di più nel lavoro perché non ne vediamo il vantaggio; che l’azienda non si rinnova perché tanto fa profitti lo stesso avendo pochi concorrenti o perché anche con guadagni in calo preferisce restare piccola (nel timore di nuovi obblighi burocratici oppure allo scopo di conservare il controllo familiare).
E’ una sfida difficile per un Paese il cui sistema manifatturiero, pur ancora forte (settimo nel mondo, secondo in Europa) produce soprattutto merci che anche i Paesi emergenti sono capaci di fabbricare. Ma forse è arrivato al capolinea il «modello italiano» dell’arte di arrangiarsi, leggi malfatte ma che si eludono, molta fantasia e poco studio, ingegnose trovate e consegne in ritardo, buon design e qualità così così. Ci sono inefficienze a cui ci abituiamo senza nemmeno percepirne più il peso: una molto irritante per le imprese straniere è che occorrano anni per riavere i soldi da chi ha pagato con un assegno a vuoto.
In tutto questo, da circa vent’anni l’azione pubblica è impacciata da difficoltà finanziarie. Non ci siamo mai davvero ripresi dalla botta del 1992, quando il vecchio sistema politico aveva portato – era proprio l’inizio di ottobre – lo Stato sull’orlo della bancarotta. Nei primi anni successivi un passo lento dell’economia era scontato, a causa dei sacrifici necessari per rimettere in ordine i bilanci pubblici e riguadagnare competitività. Mentre già una parte del Paese recalcitrava, divenne urgenti altri sforzi, per essere ammessi nell’euro all’esame del 1998; e il centro-sinistra li fece soprattutto alzando le tasse. Cosicché nel 2001, non vedendosi ancora i risultati dello stringere la cinghia, la maggioranza degli italiani votò per chi prometteva un’altra cura, il rilancio con meno tasse e con liberalizzazioni.
L’ultimo decennio anziché il «nuovo miracolo economico» hanno portato il declino. Il centro-destra al potere preferì aumentare le spese, sperando di consolidare ancor più il suo consenso; invece di liberalizzare, nel 2002 cercò perfino, senza riuscirci, di rinazionalizzare in parte le banche. I più alti deficit di bilancio non ebbero alcun effetto sullo sviluppo. A una crescita molto bassa, anzi zero se si guarda al reddito disponibile per persona, c’eravamo già arrivati prima della crisi mondiale iniziata nel 2007. Il carico fiscale è rimasto pressoché invariato, e crescerà forse a un nuovo record storico nei prossimi due o tre anni. Rimediare non è semplice.
In molti casi si tratta di leggi sbagliate, che però nessuna maggioranza politica ha voluto, o ha potuto se in qualche sua parte voleva, cambiare. Le «riforme che non costano», benvenute ora che i soldi mancano, non si fanno perché si teme che costino voti. Non costa, anzi riduce le spese, ritardare l’età di pensione, ma è sommamente impopolare. Non costa, anzi riduce il debito, privatizzare le aziende pubbliche, ma al potere di influenzarle i politici non vogliono rinunciare. Intanto i cittadini paiono diffidare di ogni ricetta che richieda sacrifici oggi per stare meglio domani. Per riguadagnare la fiducia esterna, quella dei mercati, occorre in primo luogo ripristinare la fiducia interna.

Fonte: La Stampa del 6 ottobre 2011

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