• sabato , 23 Novembre 2024

Il Paese che non sa più crescere

La scala della crescita è in discesa da quarant’anni. L’aumento del prodotto lordo procapite che era del 5,5 per cento l’anno nei ruggenti ’60, è passato al 3,5 nei cupi ’70, al 2,5 nei frizzanti ’80, all’1,5 nei movimentati ’90 fino all’1 per cento l’anno tra il 2000 e il 2007. Poi è arrivata la crisi e i numeri sono passati dall’ormai risicato segno più al segno meno. La ragione di questo declino che appare fin qui inesorabile è quella che gli economisti chiamano produttività e i comuni mortali efficienza. Da noi non è aumentata anzi, negli ultimi 10 anni è diminuita. Siamo non solo poco produttivi ma anche meno produttivi di quanto lo eravamo dieci o venti anni fa.
La crescita dell’economia è data dalla somma di tre fattori: quanto capitale ci metti, quanto lavoro e dalla produttività, ovvero da quanto riesci a combinare bene insieme questi due fattori. Ebbene, quello che è successo in Italia è che quella crescita dell’1 per cento annuo realizzata tra il 2000 e il 2007 è frutto del maggior capitale e del maggiore lavoro immessi nel sistema, mentre la produttività peggiorava. Una situazione paradossale, poiché a livello globale la crescita del pil è spiegata per il 50 per cento dai fattori (lavoro e capitale) impiegati e per l’altro 50 per cento dall’aumento di produttività, mentre nei paesi avanzati in genere la crescita tende ad essere in larga prevalenza dovuta all’aumento proprio della produttività. Paradossale e patologica, perché la ridotta crescita della produttività o addirittura la sua diminuzione sono una malattia. La malattia del sistema Italia. Di tutto il sistema, della componente pubblica e anche di quella privata.
Perché? Le tavole le ha dettate Draghi, dal pulpito sul quale ha letto le sue ultime considerazioni finali da Governatore della Banca d’Italia prima di passare a guidare la Banca Centrale Europea. Otto comandamenti per il pubblico e cinque per il privato. Tredici in tutto in cinque scarne cartelline per dirci cosa non va e cosa si deve fare.
I primi otto comandamenti, quelli per assolvere i quali lo Stato si dovrebbe mettere di gran lena, sono: la giustizia civile che non funziona; la scuola da riformare; le liberalizzazioni dei settori protetti; le infrastrutture che latitano; la disoccupazione soprattutto giovanile; il mercato del lavoro dualistico; la valorizzazione delle donne che non c’è; il welfare che non protegge chi resta senza lavoro.
I cinque per i privati sono altrettanto impegnativi: la dimensione troppo piccola delle imprese; la proprietà familiare molto spesso chiusa anche all’inserimento di manager; l’internazionalizzazione; l’innovazione; il patrimonio insufficiente.
C’è da fare quindi, per tutti. In fretta possibilmente, perché non è difficile scendere dal trono di paese ricco e industrializzato e ritrovarsi fuori dal cono di luce. E’ già successo, per citare solo qualche caso, all’Italia dopo i fasti di Roma e ancora dopo quelli del Rinascimento. E’ successo alla Cina tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, è successo all’Argentina e alla Cecoslovacchia nei primi decenni del secolo scorso.
Affari & Finanza ha deciso di concentrarsi subito sui primi otto comandamenti, quelli che riguardano lo Stato, ovvero tutti noi, con una inchiesta di cui pubblichiamo la prima puntata, dedicata alle inefficienze della giustizia civile, chiamata ad applicare 10 mila leggi, il doppio di quelle che regolano la pur assai più ordinata vita tedesca, appesantita dalla lobby potente di ben 200 mila avvocati, contro i 46 mila, per fare un esempio, della Francia.
Il senso complessivo delle indicazioni di Draghi è che lo Stato ha un ruolo fondamentale nella crescita dell’economia non più, come è stato soprattutto negli anni ’80 e molti hanno sperato che potesse continuare successivamente o riprendere a fare dopo la crisi, come fornitore di risorse. Non è lo Stato padrone di imprese la soluzione, né lo Stato erogatore di pensioni a cinquantenni. I denari pubblici contano, ma nel modo in cui li si raccoglie e in cui li si impiega. Nel tipo di incentivi e disincentivi che derivano dal sistema fiscale e nell’efficacia e nell’efficienza della sua spesa. La quantità, lo sappiamo da tempo e Draghi lo conferma è destinata semmai a ridursi: «La spesa dovrà ancora contrarsi, di oltre il 5 per cento in termini reali nel triennio 20122014», ha detto il Governatore. Quello che lo Stato, senza soldi e senza più la possibilità di fare nuovi debiti, deve fare è liberare il terreno dagli ostacoli, garantire il corretto funzionamento dei mercati senza essere preda di interessi specifici, promuovere le opportunità e la crescita delle persone. Lo Stato, anche quello italiano, deve imparare a scegliere («Per ridurre la spesa in modo permanente e credibile non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci: essi impedirebbero di allocare le risorse dove sono più necessarie…») e deve imparare a trasformare le scelte in decisioni e le decisioni in azioni. L’epoca degli annunci, che tanto caro ci è costata, ormai non ce la possiamo più permettere.
Soprattutto lo Stato deve fare lo Stato. Una indagine dell’Ufficio Ricerca del Monte dei Paschi insieme alla Sorbona (“Le leve per la crescita dell’Italia, i suoi territori, le imprese”, marzo 2011) ha messo bene in evidenza il rapporto tra la qualità delle istituzioni e il capitale sociale da una parte, e lo sviluppo finanziario e lo sviluppo economico dall’altra. Dove le istituzioni funzionano meglio (la giustizia per esempio, ma anche la scuola, le amministrazioni) c’è un più elevato capitale sociale: «Ci sono meno comportamenti opportunistici tra le parti di una transazione e le imprese fanno maggiore ricorso alla finanza esterna». Dove lo Stato c’è e funziona il capitale sociale si sviluppa, il sistema finanziario progredisce, l’economia fiorisce o quantomeno cresce di più.
Lo Stato, la sua qualità e rispettabilità sono l’humus, dopo tocca alle imprese. «Le imprese italiane sono in media del 40 per cento più piccole di quelle dell’area dell’euro. Fra le prime 50 imprese europee per fatturato sono comprese 15 tedesche, 11 francesi e solo 4 italiane. La struttura produttiva del nostro paese appare statica: i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari», ha detto Draghi. Gli ostacoli a crescere sono il contesto fiscale, normativo e amministrativo «ancora incerti e costosi», ma ancora di più gli assetti proprietari, con la famiglia che troppo spesso è azionista e gestore, chiusa al ricorso a manager esterni, con i patrimoni familiari e quelli aziendali che si confondono. «Fra le imprese manifatturiere con almeno 10 addetti, quelle in cui sia il controllo sia la gestione sono esclusivamente familiari sono il 60 per cento in Italia, meno del 30 per cento in Francia e in Germania; in queste imprese la propensione a innovare è minore, l’attività di ricerca e sviluppo è meno intensa, scarsa la penetrazione nei mercati emergenti». Parole del Governatore.
E più scarsa è anche la capacità di riallocare le risorse verso nuovi settori e nuovi prodotti. La domanda internazionale muta rapidamente ed è fondamentale riuscire a stare al passo, questo richiede la capacità di passare ai settori contigui dove la crescita è più alta, di cambiare il mix di prodotti. Un processo che richiede imprese dinamiche, ovvero capaci di fare il salto che i tempi richiedono, ma anche un sistema dinamico, che favorisca l’entrata di nuove imprese e l’uscita di quelle vecchie. Né le imprese (non tutte ovviamente) né il sistema hanno mostrato negli ultimi dieci anni questo dinamismo. Si è preferito, nei casi migliori, sfruttare i punti di forza tradizionali aumentando la nostra specializzazione. E’ una strada utile nel breve periodo, spiegano i ricercatori del Monte dei Paschi e della Sorbona, ma non sufficiente nel medio e nel lungo. E’ lo stesso errore che si fece alla fine del Rinascimento, al quale seguirono per l’Italia secoli bui mentre l’innovazione e lo sviluppo si spostavano verso altri paesi. E’ storia nostra, dalla quale potremmo imparare.

Fonte: Affari e Finanza del 6 giugno 2011

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