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Il nodo del nostro capitalismo

Iri e Mediobanca, si stava meglio quando si stava peggio
“Vecchio Iri” e “grande Mediobanca”: mai lacrima di nostalgia fu più giustificata di quella versata ieri dal ministro Tremonti per il capitalismo italiano che c’era una volta e ora non c’è più. Mai come in questo momento si sente la mancanza del volano delle partecipazioni statali – sia chiaro, quelle sane del dopoguerra, cui dobbiamo la ricostruzione del Paese, non i panettoni di Stato e i carrozzoni stile Efim – così come pesa maledettamente l’assenza di una Mediobanca capace di svolgere il ruolo di cerniera degli interessi, e di fungere da stanza di compensazione quando non è possibile sommarli. E non si tratta solo o tanto di Edison e Parmalat, e tantomeno di una guerra ai francesi – tra l’altro bisogna distinguere, molti sono buoni e preziosi alleati – che si rischia pure di perdere. No, quel senso di vuoto per strumenti che non hanno trovato sostituti va ben oltre la contingenza, per quanto importante, e riguarda l’anima stessa del sistema imprenditoriale italiano, che si è illuso – e tuttora lo rimane – di poter fare a meno di sostegno e guida, nell’infelice presunzione che gli animal spirits di cui è ricco siano sufficienti proprio mentre la competizione non è più tra aziende in mercati corrispondenti ai confini degli Stati, e neppure più tra Stati, ma tra Continenti.
Solo che la nostalgia rischia di essere segnale di impotenza e la reazione tardiva, proprio perché tale, inutile quando non dannosa. In realtà, prima di tutto ci si dovrebbe chiedere come e perché Iri e Mediobanca (quella vera, quella di Enrico Cuccia) non ci siano più. E poi domandarsi se esitano responsabilità per queste premature scomparse, e nel caso di chi siano. Infine, capire come mai il loro superamento non abbia prodotto quegli effetti liberatori del mercato e moltiplicatori del business che tutti coloro che ne esecravano l’esistenza pronosticavano. Ve le ricordate le battute sui “boiardi di Stato”, sui “salotti buoni” e sui “poteri forti”? Sembrava che chiudendo l’Iri e seppellendo Cuccia avremmo vinto un terno al lotto. Non solo, la Seconda Repubblica – in tutte le sue componenti, nessuna esclusa – è nata su parole d’ordine “nuoviste”, che in buona misura riguardavano anche gli assetti del capitalismo. Il quale aveva sì bisogno di essere svecchiato, nella mentalità e nella prassi, ma non certo di essere cancellato senza neppure aveva idea di cosa sarebbe venuto dopo. Il populismo che in politica ha portato alla cancellazione dei partiti, all’eliminazione delle preferenze, all’illusione del maggioritario e del bipolarismo quando non del bipartitismo, nell’economia si è tradotta in una ubriacatura liberista che ha cancellato il concetto stesso di sistema nazionale, di politica industriale, di campioni nazionali. Alle grandi imprese – per definizione brutte e cattive – si è preferito le piccole, senza capire che in piena globalizzazione e nel bel mezzo di una vera e propria rivoluzione tecnologica che richiede enormi investimenti in ricerca, il tessuto dell’imprenditorialità diffusa non solo non sarebbe più bastato, ma per molti versi avrebbe rappresentato una palla al piede dello sviluppo.
Dunque, ben vengano le parole di Tremonti e i tentativi – dalla legge sui settori strategici all’uso di Cdp – di difendere quel che c’è rimasto. Ma certo l’amaro in bocca è tanto, per chi l’aveva detto.

Fonte: Mesaggero del 3 aprile 2011

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