Gli Usa perseguono l’interesse nazionale trascurando il loro
ruolo di leader internazionali. Mentre l’Europa non trova
la strada dell’unione politica. E nessuno pensa alle riforme
necessarie per uscire dalla crisi ed evitarne altre.
Nella confusione di un mondo che va alla ricerca di nuovi equilibri geopolitici e geoeconomici, il Fondo monetario internazionale sembra l’unica istituzione che riesce a tenere ferma la barra del timone in direzione dello sviluppo, considerato indispensabile quanto la stabilità. Infatti, gli Stati Uniti danno preferenza allo sviluppo rispetto alla stabilità creando dollari in grande quantità e mantenendo, insieme al Regno Unito, il disavanzo di bilancio pubblico più elevato dopo Grecia ed Egitto. La Cina ha una politica simile,ma mantiene lo yuan-renminbi strutturalmente sottovalutato, discostandosi dalla filosofia del cambio che ha ispirato il Fmi. L’Unione europea assegna priorità assoluta alla stabilità fiscale e, per ora a chiacchiere, invoca la crescita, ma lascia il cambio dell’euro alla mercé del mercato. Questa è una vera coltura di crisi dagli sbocchi imprevedibili.
Che il Fmi la pensi così e prema sull’Unione europea è certamente merito dell’elegante avvocatessa francese che lo guida, Madame Lagarde, ma è anche l’erede della concezione di come funziona il sistema economico portata avanti da Lord Keynes. Nel 1971 gli Stati Uniti hanno demolito l’Accordo del 1944 (Bretton Woods, ndr) senza preoccuparsi di costruirne uno nuovo, convinti che il mercato fosse capace di curare ogni male, a cominciare da quelli che esso stesso crea. Il «liberi tutti» ha funzionato fino alla crisi dei mutui subprime smerciati come titoli derivati e il mondo ha riscoperto che moneta e finanza richiedono una continua vigilanza delle autorità. Nel settore reale, il mercato, se competitivo e globale, ha più capacità di autoregolarsi ma, se la politica non interviene, non sa raggiungere la piena occupazione.
Purtroppo l’intervento pubblico è reso oggi impraticabile perché, secondo l’ottima definizione dell’economista Giangiacomo Nardozzi, il mercato ha «catturato» la politica e questa non fa ciò che deve per sostenere lo sviluppo, ma ciò che il mercato necessita per sopravvivere. Nei consessi globali, come il G20, si riconosce la necessità di un coordinamento internazionale delle politiche, ma di fatto esso è reso impraticabile per i ben noti dissensi sui modi di procedere e perché gli Usa possono creare dollari in quantità illimitate ben sapendo che c’è sempre qualcuno che li tiene. Questi qualcuno si chiamano oggi Cina e Paesi produttori di petrolio, che usano questi dollari per accrescere la loro influenza geopolitica e geoeconomica. Per perseguire l’interesse nazionale dello sviluppo a ogni costo, gli Stati Uniti perdono terreno quali leader internazionali indispensabili per riformare la governance globale.
L’euro poteva essere un’alternativa al dollaro ma, dopo una breve parentesi di successi, è entrato in crisi per la miopia dei leader europei, Francia e Germania in testa, che non comprendono l’assoluta necessità di associarlo a un’unione politica vera e propria; questa condizione era stata chiaramente espressa al momento della sua nascita con lo slogan «money first», facciamo la moneta per trascinare l’unione politica, ma i Paesi firmatari se ne sono dimenticati. Tutti agiscono tentando di tutelare i propri interessi e nessuno riporta al centro dell’agenda internazionale le riforme istituzionali monetarie e reali, rese necessarie dopo la fine della divisione in blocchi politici del pianeta e l’affermarsi dell’integrazione economica globale. Il mondo è in attesa del risveglio delle coscienze dei governanti e vive nell’incubo di nuove crisi.
Il mercato globale è ancora in attesa delle nuove regole
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