• sabato , 23 Novembre 2024

Il lavoro e la campagna elettorale

L’occupazione ed il lavoro saranno tra i temi principali di una campagna elettorale per molti aspetti già iniziata. Lo ha posto in primo piano, ad a tutto tondo, il leader “in pectore” dell’Unione, Romano Prodi. Se le “primarie” indette dal centro sinistra per il 16 ottobre confermeranno il suo ruolo e se lo schieramento oggi all’opposizione vincerà, uno dei primi provvedimenti sarà quello di abrogare il complesso di norme che vanno sotto il nome di legge Biagi. Prodi conosceva bene Marco Biagi, vivevano a meno di duecento metri di distanza, dice di esserne stato grande amico (anche se, nonostante fosse influente docente dell’ateneo felsineo non è mai riuscito a fargli avere la tanto desiderata “chiamata” a Bologna) e sostiene che il Governo ed il Parlamento hanno stravolto il pensiero del giuslavorista: al posto della flessibilità regolamentata che sarebbe stata nei progetti di Biagi , avrebbero attuato una precarizzazione sfrenata.
Siamo uomini di mondo. E sappiamo come sono andate le cose: la “legge Biagi” altro non è che l’attuazione logica e conseguenze di quel “pacchetto Treu” il cui iter iniziò negli Anni Novanta e che era articolato su una graduale flessibilizzazione (peraltro molto regolamentata) del mercato del lavoro. Molto più timida dell’insieme di norme che vanno sotto il nome di Hartz IV attuate in Germania da un Governo rosso-verde di centro-sinistra. Sappiamo anche che il Prof. Romano Prodi ne è ben consapevole. Ha dovuto fare una concessione a Fausto Bertinotti, il quale ha trovato nell’abrogazione della legge Biagi un vessillo per raccogliere le proprie truppe analogo alla proposta settimana lavorativa di 35 ore tramite la quale nel 1998 fece cadere un Governo di centro sinistra proprio guidato da Romano Prodi in persona. Sappiamo, infine, che la crescita dell’occupazione e la riduzione del tasso di coloro che cercano lavoro sono tra i successi visibili di maggior momento che può mettere in campo l’attuale maggioranza.
In Italia, il tasso di disoccupazione è diminuito di due punti percentuali negli ultimi quattro anni arrivando al 7,5% delle forze lavoro. Ciò è in marcata controtendenza con la media europea dove tra i Paesi di maggiori dimensioni unicamente la Spagna ha avuto un’esperienza simile, mentre in Francia e Germania si è rimasti arroccati a tassi di disoccupazione rispettivamente attorno al 10% ed al 12%. E’ proprio vero che, come sostiene l’opposizione, l’aumento dell’occupazione registrato dai dati Istat rifletterebbe lavori “non buoni “ (forse “cattivi”?) in call centers e pizzerie oppure in servizi domestici soprattutto per extra-comunitari. I dati, inoltre, sarebbe “gonfiati” dalla registrazioni a ragioni di sanatorie (relative ancora una volta agli extra-comunitari). L’Istat (istituto noto per l’imparzialità) segue nell’indagine sulle forze di lavoro rigorosamente metodi e procedure Ocse tali da non rendere possibili “gonfiamenti” da registrazioni post-sanatorie.
L’analisi nuda e cruda dei dati dice, poi, che le categorie che più hanno tratto vantaggio dalla riduzione della disoccupazione sono i giovani e le donne (gruppi il cui accesso all’occupazione è stato spesso bloccato dalle rigidità esistenti prima delle norme che vanno sotto il nome di legge Biagi). Sono tutti finiti nei call centers o a vendere pizze oppure a pulire le scale di condomini oppure ancora a tentare di piazzare enciclopedie, aspirapolvere, polizze di assicurazione e fondi comuni? Non è andata affatto così : è aumentato molto il lavoro autonomo e professionale e l’occupazione nei servizi.
Anche ove fosse andata come descritto in certi quadri a tinte fosche, non sarebbe necessariamente un male .David Audretsch (Max Planck Institute) Martin A. Carree, Rory Thurik (ambedue dell’ Università di Rotterdam), e A.J. Van Steel (Ministero del Lavoro dei Paesi Bassi) – tutti distinti e distanti dalle beghe e dalle “primarie” nostrane- hanno esaminato le dinamiche del mercato del lavoro in 23 Paesi Ocse del 1994 al 2002 giungendo alla conclusione che anche quando si inizia con lavori “precari” si sprigiona un “effetto imprenditoriale” che porta o alla creazione di vere e proprie imprese od ad occupazione permanente in seno ad esse. Ancora più positive le analisi di Michael Moynagi e Richard Worsley nel volume “Working in the 21st century” pubblicato due settimane in Gran Bretagna nell’ambito del progetto “Future of Work”: con una ricca messe di dati (anche italiani) mette una pietra tombale su tutta la letteratura sociologica sulla “fine del lavoro” e dimostra che è in atto una trasformazione verso lavori “buoni” in cui grazie alle tecnologia ciascuno può definire le proprie modalità ed i propri orari. Lo conferma il World Employment Report 2005 dell’International Labour Office (non certo un pensatoio del centro destra) . Infine, l’Economist Intelligence Unit (altro istituto che non ha mai guardato con grande simpatia l’attuale Governo italiano) dedica uno studio al fatto che la contrazione dell’occupazione nel manifatturiero e l’espansione di quella nei servizi (altra caratteristica evidenziata dai dati Istat) è “segno di progresso economico e sociale non di declino”. Non solo ma la stessa logica della riduzione degli orari di lavoro allo scopo, vero o presunto, di attivare nuove opportunità di lavoro (a chi non ce le ha e le cerca) pare appartenere al passato. Daniel Hamermesh (dell’Università del Texas) e Joel S. Slemrod (dell’Università del Michigan) sono tornati di recente su un tema già analizzato alcuni mesi fa su ItaliaOggi : l’economia del “workaholismo”, ossia dell’intossicazione da troppo lavoro che richiede sempre più lavoro. Quantizzano come ormai sia diventato un problema serio non solo negli Usa far sì che certe fasce del mercato del lavoro vadano in pensione quando sarebbe logico. Tanto più che la Corte Suprema ha dichiarato discriminatori contro gli anziani i “limiti di età” che costringono alla quiescenza. Il troppo lavoro per alcune categorie rischia di diventare uno dei problemi centrali del 21simo secolo.

Fonte: Italia Oggi del 13 ottobre 2005

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