Giuliano Amato, Giuseppe Tesauro e Antonio Catricalà hanno festeggiato in modo non banale i venti anni dell’Antitrust. Con il garbo e la saggezza che li contraddistingue i tre presidenti che si sono succeduti, dopo Francesco Saja, alla guida dell’Autorità si sono affrontati a viso aperto, senza risparmiarsi critiche. Che testimoniano come le tematiche relative alla concorrenza e alla sua regolazione siano attuali, oggi più che mai. E, soprattutto, come il dibattito sia ancora vivace.
Amato, che nel 1994 definì l’Antitrust come un «missionario in terra d’infedeli», ha toccato subito un tasto delicatissimo. «Speriamo che la crisi finisca presto ha detto l’ex presidente del consiglio perché la crisi non giova alla concorrenza». Quando la recessione provoca una riduzione dell’attività produttiva e quindi dell’occupazione «i governi cercano di salvare quello che si può salvare». E allora non si guarda tanto per il sottile: si passa sopra le regole della concorrenza, gli aiuti di stato non sono il demonio, si difendono i “campioni nazionali”.
Poco importa che tutti gli studi effettuati sugli anni 30 e sul Giappone degli anni 90 abbiano dimostrato come in questo modo si sia solo ritardata la ripresa. Quell’atteggiamento finisce per prevalere anche se «la concorrenza giova alla crescita», come ha concluso Amato. Il quale non ha potuto fare a meno di richiamare una sentenza della Corte costituzionale sulla legittimità del provvedimento con cui il governo e il parlamento hanno esentato la nuova Alitalia di Roberto Colaninno dal rispetto delle regole antitrust. Per salvare l’italianità della compagnia di bandiera si è “sorvolato” sulla posizione dominante che essa avrebbe assunto su alcune rotte tra le più trafficate come la Roma-Milano. La Corte, nella sentenza n. 270 del 23 giugno 2010, non ha ritenuto di infierire sulla norma di esenzione. E il relatore era proprio Tesauro che oggi è giudice costituzionale.
Eppure Tesauro, tra tutti, è forse quello che ha la fama del più cattivo, del mastino, di quello che non fa sconti e non guarda in faccia a nessuno. «Energia, telecomunicazioni, assicurazioni: la concorrenza – ha detto il giudice costituzionale riferendosi al periodo della sua presidenza (1998-2004) era poco diffusa». E nella sua visione questo è un grave limite al buon funzionamento dell’economia perché a lungo andare «viene meno ogni incentivo alla ricerca e all’innovazione». Di qui l’esigenza di intervenire con «misure a medio-lungo termine», le più efficaci a garantire anche la tutela del consumatore. Quindi, sanzionare le imprese che sgarrano e far sì che si abituino a operare in un ambiente più concorrenziale.
Proprio quello che Catricalà non vuole fare: l’Antitrust non è «una polizia del mercato». Deve invece puntare a ottenere una modifica delle prassi commerciali con i cosiddetti “impegni”. Quasi una trattativa che suona così: «Ti abbiamo beccato, tu che cosa puoi fare per convincerci che non lo farai più?». E poi l’Antitrust deve badare alla tutela del consumatore, «la parte più debole del sistema economico», come diceva Saja citato da Catricalà.
Il denominatore comune rimane la fiducia nella concorrenza come motore della crescita. Per questo va risolta al più presto la questione della guida delle authority. Catricalà è in corsa per assumere la guida della Consob ma in quattro mesi il governo non è stato capace di designare il sostituto di Lamberto Cardia, lasciando nell’incertezza non una ma due authority. Proprio in un momento in cui il loro ruolo è determinante per far ripartire l’economia.
Il Garante e il mercato venti anni di solitudine
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