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Il Ft, piu’ che di Monti, parla di come si sta nell’euro senza finire succubi

Anche se considero quello attuale un momento non adatto a un serio dibattito sulla collocazione istituzionale-costituzionale dell’economia italiana, da cui discende la politica economica da seguire – tema che dovrà essere affrontato dopo le elezioni –, credo sia utile riflettere sulle reazioni scomposte rivolte all’articolo di Wolfgang Münchau sul Financial Times del 21 gennaio. L’articolo in questione presenta due facce: una politica, che considero l’aspetto principale, e una economica. Quella politica si può sintetizzare in due frasi: Monti avrebbe dovuto “condizionare la permanenza nell’euro a un aggiustamento simmetrico” tra paesi europei in difficoltà e paesi che lo erano meno, mentre “ha promesso riforme e finito con l’aumentare le tasse”. Quella economica sottolinea che, rispetto alle tre opzioni aperte (stare nell’euro senza condizioni, porre condizioni o uscirne), Monti ha scelto “solo un aggiustamento fiscale nel breve periodo (leggi aumentare subito le tasse) e l’attesa”. L’articolo di giornale inevitabilmente semplifica il quadro di riferimento interno ed esterno entro cui Monti operava, ma la descrizione fattane da Münchau non è fuori dalla realtà delle cose. Trovo difficile decidere se la soluzione ai problemi economici sia quella che propone oggi Monti o quella praticata dalla Merkel o quella, assai diversa, seguita da Obama-Bernanke, perché la crisi che viviamo non trova risposta facendo ricorso agli strumenti di analisi e di intervento che conosciamo. Siamo in una condizione simile a quella della Grande crisi 1929-’33, sulle cui origini ancora discutiamo, e non riusciamo a districarla sul piano logico per proiettarla in politica, come fece Keynes: i paesi leader pensano a se stessi, pur in un quadro di mercato globale e di integrazione delle economie. Per quanto mi riguarda so solo che le politiche attuali sono tra loro incoerenti e stanno portando l’ex area occidentale, forse il mondo, in una difficile condizione sociale; questa sta sboccando in una battaglia sui rapporti di cambio, dove l’euro – alle attuali condizioni istituzionali – farà la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Come affrontare le diverse politiche monetarie e valutarie resta un aspetto rilevante delle riforme che andrebbero introdotte sia nel funzionamento della Banca centrale europea, allargandone i poteri sul cambio, sia nella politica economica “dell’austerità fiscale”, sulla quale Münchau ha ragioni da vendere (e, noi, per acquistarle).
La mia posizione è stata avanzata per tempo su questo stesso giornale: fin da metà 2012 proponevo di chiedere ai partner europei di scegliere, tra le tre opzioni sull’euro, quella indicata da Münchau che consiste nel chiedere alla Germania, che presentava e presenta un avanzo di bilancia estera corrente superiore a quello della Cina, di espandere la propria economia invece di imporre un aggiustamento asimmetrico ai paesi in difficoltà; affinché la proposta potesse essere accettata avremmo dovuto avanzarla in modo credibile, pronti ad attuare il piano B di uscita dall’euro. La mia opinione è che non sarebbe stato possibile uscire perché il paese aveva paura delle conseguenze, atteggiamento non nobile, e perché Draghi avrebbe dato una risposta monetaria alla crisi, salvando l’euro, ma penalizzando i paesi in difficoltà, Italia compresa. Avanzo tuttavia la valutazione che, se i paesi in difficoltà si fossero uniti nella richiesta invece di ricercare assistenza finanziaria, la Germania avrebbe accettato la correzione dei suoi gravi squilibri di bilancia con riflessi positivi sulle economie europee. All’avvento del governo Monti, ho proposto di cominciare da un taglio generalizzato delle spese – che allora i partiti non avrebbero potuto rifiutare – e continuare con la cessione del patrimonio pubblico. Se l’avessimo fatto, avremmo fatto rientrare il rischio di default che Münchau vede ancora incombere sul nostro paese (non a torto). Invece di trarre le necessarie conclusioni dall’esperienza fatta, si insiste sulla proposta di ricorrere a una patrimoniale, che ho definito “l’ultima delle eresie”, per giunta non al fine di ridurre il debito pubblico, ma per “ridurre le tasse”, senza cogliere almeno l’ironia insita nella stessa affermazione.

Fonte: Il Foglio del 23 gennaio 2013

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