La posizione negoziale di Mario Monti in Europa è davvero poco invidiabile: rappresenta un Paese molto più esposto degli altri all’attacco dei mercati, ma al tempo stesso deve essere mediatore tra Francia e Germania pur di garantire un accordo vitale per l’Italia. Come se non bastasse, in casa propria assiste a proposte politiche sconcertanti sull’uscita dall’euro, che indeboliscono la credibilità dell’impegno del Paese. Non può nemmeno contrastare tali proposte sottolineando all’opinione pubblica la drammatica fragilità finanziaria italiana senza rischiare di aggravarla.
Ma non è tutto, un’ulteriore difficoltà è nell’assicurare che i proclami retorici di cui i leader europei saranno generosi anche al prossimo vertice, non sostituiscano gli impegni concreti di cui invece sono avari. Gli analisti americani per esempio descrivono le ambizioni del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno con sarcasmo, usando termini della cultura comunista: “la lunga marcia”, il “balzo in avanti”, il “piano quinquennale”. Sanno che dal vertice potrebbe emergere un disegno ambizioso che conduca l’area euro all’unione politica entro un decennio, ma non è la pazienza la prima virtù dei mercati finanziari. E sulla reazione immediata dei mercati, cioè sul livello degli spread spagnolo e italiano, rischia di decidersi già entro una settimana la sopravvivenza dell’eurozona.
Nell’incontro preparatorio di Roma, l’annuncio più esplicito è stato quello di un pacchetto per la crescita da 130 miliardi. Gli italiani avranno alzato uno scettico sopracciglio e pensato: un’altra volta? Fortunatamente l’annuncio ha dietro di sé alcune proposte di attuazione – sono pubbliche quelle di alcuni documenti preparatori – che lo rendono plausibile. Mobilitare l’1% del Pil può avere effetti moltiplicati in una fase di recessione. Dunque la prima decisione è positiva. Tuttavia tra una settimana i mercati vorranno vedere quasi esclusivamente provvedimenti che possano far scendere gli spread di Italia e Spagna.
Quello che chiedono è da subito una forma o un’altra di messa in comune dei debiti pubblici. Saremmo nei guai se questo significasse che o arrivano gli eurobond o il vertice è fallito. Gli eurobond non vengono nemmeno menzionati nel documento pubblicato dal vertice del G-20 di Los Cabos. L’obiezione tedesca è stata troppo forte. Una delle ipotesi meno intrusive di eurobond, il “fondo di riscatto” che dovrebbe mettere in comune solo la quota dei debiti pubblici oltre la soglia del 60% dei Pil, non figura nemmeno nel compromesso parlamentare tra governo e opposizione di Berlino. Ieri il presidente francese, che sembrava aver ridotto la richiesta agli eurobills – titoli di breve durata – ha riconosciuto che essi arriveranno solo tra diversi anni.
La proposta più sottile è di emettere eurotitoli dal 2015 e solo sul nuovo fabbisogno degli Stati (non quindi a fronte del rinnovo dei vecchi titoli in scadenza) a patto che il disavanzo fiscale sia verificato e autorizzato dall’Eurogruppo. Sarebbe una parte minima dei debiti pubblici, ma tale da spingere alla convergenza dei rendimenti sui titoli dell’intero debito. In questa opzione, gli eurobond arriverebbero solo dopo aver trasferito sovranità fiscale a Bruxelles, una prospettiva che però ai francesi piace poco. Qui si gioca il contrasto tra Berlino e Parigi in mezzo al quale Monti deve trovare una via d’accordo: Merkel vuole prima l’unione fiscale e politica e poi la messa in comune dei soldi; Hollande vuole il contrario.
Il margine di mediazione italiano sembra quello di ricorrere agli strumenti esistenti per ottenere la stabilità finanziaria e al tempo stesso aprire la strada all’evoluzione disegnata dalla road map. Un’ipotesi è quella di utilizzare le risorse dei fondi salva-stati per dare garanzie alla Banca centrale europea a fronte di una sua ripresa di acquisti dei titoli di Stato. La mutualizzazione dei debiti avverrebbe in forma indiretta, cioè attraverso il bilancio della Bce, con strumenti già sperimentati e con risorse già stanziate. Il programma di acquisti dei titoli italiani da parte della Bce, nell’agosto-ottobre scorso, era fallito perché troppo timido. Anziché contrastare le vendite del mercato aveva offerto ai venditori un’opportunità per affrettarsi a cedere i titoli.
Per stabilizzare i mercati, gli acquisti devono essere massicci e per questo servono le garanzie degli Stati sulle perdite eventuali della Bce. Berlino sembra contraria a coinvolgere la Bce, ma è incapace, per limiti politici e giuridici, di offrire una soluzione che non passi dalla Bce o dal Fondo monetario. Questo è l’ostacolo principale da superare.
Aprire formalmente un programma di assistenza sarebbe l’ipotesi peggiore. Anche nell’eventualità che non scatenasse panico e fuga dai depositi bancari, scaricherebbe l’intero aggiustamento su Italia e Spagna anziché sull’eurozona. Sarebbe una sconfitta per il governo italiano, costretto a lasciare in mano alla troika le leve della politica economica, ma una sconfitta da cui paradossalmente nessun altro attore politico nazionale potrebbe ricavare vantaggio. Se questo fosse chiaro, il governo avrebbe la forza per mobilitare il Parlamento italiano su misure di riforma del Paese più coraggiose di quelle finora tentate e tali da assicurare il taglio del debito pubblico italiano fin da adesso.
Il filo sottile per l’accordo
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