Nel clima delle vistose turbolenze nell’eurozona, come si giustifica la persistente relativa forza del cambio dell’euro rispetto al dollaro? Un cambio intorno a 1,30 è meno forte rispetto ai picchi di oltre 1,40 di qualche mese fa, ma è ben lontano dal livello iniziale a 1,17 e dagli infimi livelli di 0,80-0,90 toccati nel 2002, a meno di due anni dalla nascita della moneta unica di cui fra pochi giorni celebriamo il decimo compleanno.
Avanzare spiegazioni su livelli, volatilità di breve periodo e tendenze di medio periodo dei tassi di cambio è sempre un gioco pericoloso, nonostante la ricchezza di ricerche econometriche e di teorie disponibili, ma i sentimenti dei mercati sono oggi sensibili ad almeno tre considerazioni.
Prima e più importante, il mantenimento se non un ulteriore deprezzamento del cambio del dollaro rispetto alle principali monete (euro in testa) sembra necessario in prospettiva, per favorire una correzione di quel disavanzo della bilancia statunitense delle partite correnti con l’estero che appare sempre più insostenibile: una vistosa anomalia per cui il paese più ricco è diventato in pochi anni anche il maggior debitore verso il resto del mondo. Come annota l’ultimo Rapporto annuale della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) del 26 giugno 2011, prima della crisi del 2007 i mercati scorgevano i massimi rischi di instabilità negli squilibri globali delle partite correnti; poi le preoccupazioni si sono repentinamente spostate sulla solvibilità dei maggiori intermediari finanziari.
Oggi, allontanatosi il rischio di un collasso finanziario ed economico mondiale, l’attenzione torna agli squilibri nelle partite correnti: «Un’economia caratterizzata da grandi afflussi netti di capitali rischia un grave e disordinato deprezzamento della propria moneta qualora quegli afflussi cambiassero improvvisamente di segno (
) persistenti e gravi disavanzi esterni non sono sostenibili e devono prima o poi terminare (
) aggiustamenti nei tassi di cambio reali aiutano a ridurre tali squilibri globali (
) attualmente non si può dare per scontata la capacità degli Usa di finanziare agevolmente il proprio disavanzo esterno. Un brusco ribilanciamento della domanda globale provocato da una precipitosa svalutazione del dollaro avrebbe enormi ripercussioni sull’economia mondiale» (pp. 33-37). Lo stesso Rapporto della Bri ricorda che non contano solo i flussi netti di capitali (equivalenti col segno opposto ai disavanzi delle partite correnti), bensì anche i flussi finanziari lordi, che possono alterare gli equilibri e creare volatilità nei bilanci delle imprese, delle famiglie e degli intermediari finanziari. Senza contare che persistenti squilibri nelle partite correnti «potrebbero indurre i paesi in disavanzo a ricorrere a misure protezionistiche»
Da questi rilievi insolitamente espliciti, e non sospetti, deriva l’auspicio di un dollaro più debole, non di un euro più debole. Nella stessa scia si muovono analisi di studiosi e commentatori, da Fred Bergsten (Peterson Institute di Washington) a Wolfgang Münchau (Financial Times). Ovviamente un euro più forte di oggi rispetto alla vasta area del dollaro crea ulteriori problemi di competitività ai paesi periferici d’Europa, ma l’Eurozona nel suo assieme resta dominata da una Germania il cui surplus esterno riflette una struttura produttiva (soprattutto manifatturiera) sempre più multinazionale, che compensa elevati costi del lavoro con sofisticati fattori di innovazione tecnologica continua e di organizzazione commerciale.
Seconda considerazione: la politica monetaria della Fed, nettamente improntata in senso espansivo a sostegno di una debole ripresa dell’economia reale, per ora si accompagna ad aumenti di prezzi assai contenuti e prossimi a quelli europei (l’Ocse li prevede entrambi intorno al 2% nel 2012-13), ma già i mercati nutrono aspettative di tassi di inflazione tendenzialmente più elevati, per sé forieri di un deprezzamento del cambio nominale del dollaro a sostegno della competitività di costo. Non è fuori luogo una ipotesi di classica “tassa da inflazione” per alleviare la discesa in termini reali di un debito pubblico Usa che dal 60% del Pil alla fine del 2007 si è ormai portato intorno al 100% alla fine di quest’anno. E la previsione dell’Fmi (World economic outlook) di un persistente deficit primario Usa nei prossimi anni alimenta tale ipotesi.
Terza considerazione: anche se il dollaro resterà a lungo la valuta dominante negli scambi commerciali e finanziari internazionali, le maggiori banche centrali (a cominciare da quella cinese) e gli investitori istituzionali privati hanno ormai iniziato una graduale diversificazione dei portafogli verso l’euro e altre valute. La quota dell’euro sulle riserve ufficiali mondiali è cresciuta dal 20% del 1999 (equivalente delle valute pre-euro) all’attuale 25%. Nello stesso periodo assai più è salita la quota dell’euro sul totale delle emissioni di titoli di debito, dal 10% a oltre il 30%. Giocano a sfavore dell’euro, oltre l’attuale quadro confuso della mancata governance condivisa, fattori come la minor crescita del Pil (sono finora fallite le ambizioni dell’Agenda di Lisbona) e la persistente maggior frammentazione dei mercati bancari e finanziari europei rispetto a quello americano. Ma da qui a prevedere un forte deprezzamento del cambio dell’euro sul dollaro (Nouriel Roubini su La Repubblica di mercoledi 28 auspica addirittura una discesa del 30% alla parità 1:1) corre una lunga distanza.
Il difficile equilibrio euro-dollaro
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