Lélite che si fa capire nel mondo impari a comunicare al Paese reale.
Nessun governo ad ampia ispirazione elitaria può evitare di fare i conti con gli atteggiamenti e i comportamenti dei diversi soggetti sociali, con i loro molteplici interessi particolari e con le loro diversificate emozioni collettive. I questa la congiuntura che sta attraversando il nostro governo dei tecnici, di quella nuova e «terza élite», come labbiamo recentemente chiamata per distinguerla dalla prima (Menichella, Saraceno e altri) che operò nellimmediato dopoguerra e dalla seconda (Amato, Ciampi e altri) che gestì la crisi dei primi anni Novanta. Senza dubbio abbiamo oggi governanti che sanno volare alto, che gestiscono complesse relazioni internazionali, che hanno lignaggio e linguaggio europeo; ma essi denotano qualche difficoltà a entrare nella lunghezza donda dei pensieri collettivi, sovrapponendo ad essi giudizi di valore e incauti aggettivi che fanno sospettare una certa dose di alterità «fra governo e popolo».
Non è problema nuovo, visto che il rapporto fra élite e gente comune è tema che accompagna gli ultimi duecento anni di vita nazionale. Io amo spesso ricordare un intellettuale risorgimentale (il De Meis) per il quale in Italia convivono un «primo popolo che sfanga la vita negli affanni quotidiani» e un «secondo popolo, che pensa il sentimento del primo e ne è quindi il legittimo sovrano». Sublime questa autoesaltazione delle élite, confermata da Giulio Bollati, che a commento chiariva che per molti padri del Risorgimento «il popolo italiano è materiale spento e inerte finché non lo penetri la luce e lattività dellélite pensante».
Non è un riferimento erudito, è il riferimento al modo in cui per decenni si è posto il rapporto fra élite e corpo sociale: la prima che pensa e progetta, il secondo che deve solo «sfangare la vita».
E non può quindi sorprendere la situazione attuale, dove governa un secondo popolo che sa pensare, che sa capire per tutti noi quel che avviene, e che sa decidere quel che è necessario fare; penetrando così con la propria luce lo «spento e inerte» primo popolo (gli aggettivi sono diversi, da mammone a sfigato, ma il senso complessivo è quello).
Ma è maturo il tempo per capire che il rapporto attuale fra élite e popolo non è più configurabile nei termini di alterità culturale ed esistenziale su cui esso nacque. Occorre un riconoscimento reciproco.
E se da un lato è giusto dire che il secondo popolo ha pensato e portato avanti tappe fondamentali della nostra storia, dal Risorgimento allunificazione amministrativa e culturale, alle grandi guerre di indipendenza, alle stesse avventure prima coloniali e poi imperiali; è però altrettanto giusto prendere atto che dal 1945 in poi il primo popolo è stato tuttaltro che inerte e spento: ha fatto la ricostruzione post-bellica; ha modificato (prima attraverso lemigrazione interna e poi con lesplosione del localismo economico) la struttura territoriale del Paese; ha fatto miracolo economico e boom dei consumi; ha fatto industrializzazione di massa, con lesplosione prima del sommerso e poi della piccola impresa; ha esaltato la potenza economica della famiglia; ha costituito la più alta patrimonializzazione immobiliare e mobiliare del mondo occidentale; ha valorizzato con il made in Italy settori merceologici da tutti considerati in decadenza.
Non avrà avuto quel dono di pensare che si presume necessario per ben governare; ma il primo popolo ha cambiato un Paese povero in un Paese agiato, di ceto medio borghese e di capitalismo molecolare, facendone quella realtà complessa che oggi pone delicati problemi di governabilità.
Ma va notato che, lungi dal disgiungersi da tale evoluzione, la componente elitaria quando è stata chiamata in causa, come nel Dopoguerra e negli anni Novanta ha lavorato per dare ad essa sostanza e qualità. Cè stato rispetto e silenziosa dialettica fra primo e secondo popolo, non ambizioni di rivincita del primo o nostalgie pedagogiche del secondo. Sarebbe il caso di continuare su questa strada, lo merita la serietà di chi sfanga la vita nella quotidianità e lo meritano la bravura intellettuale e la crescente immagine, anche internazionale, di chi ci governa.
Il difficile dialogo tra elite e Paese
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