Quando si è rotto il giocattolo della finanza a debito, che modelli matematici di economisti insigniti del Nobel assicuravano potesse continuare all’infinito, i governi di tutto il mondo si sono mobilitati come mai era successo prima per evitare che il pianeta precipitasse in una Grande Crisi come quella iniziata nel 1929. Gli errori di allora, ampiamente studiati, non sono stati ripetuti. Si è fatto di tutto per evitare la paralisi del sistema del credito e le belle teorie sugli equilibri di bilancio sono state rapidamente gettate alle ortiche. L’implosione dell’economia di mercato è stata evitata dalla pesante discesa in campo degli Stati, quegli stessi Stati che il pensiero fino a quel momento dominante voleva il più lontano possibile dalle attività economiche.
Il disastro è stato evitato: non senza che il tessuto sociale soffrisse pesanti lacerazioni, ma comunque si è evitato di finire nell’abisso. Se però qualcuno aveva pensato che i problemi fossero superati e non restasse che tirare un sospiro di sollievo e riprendere il cammino, ebbene, si era illuso. Il Bollettino della Bce – come altri documenti di istituzioni finanziarie internazionali – afferma una verità molto banale: è venuto il momento di pagare il conto.
Gli squilibri che avevano scatenato la crisi sono stati trasferiti, per evitare il peggio, dall’economia privata ai bilanci pubblici. Ma neanche questi ultimi possono sfuggire alla regola che non è possibile consumare sistematicamente più valore di quello che si produce. Hanno solo a disposizione un tempo maggiore per smaltire gli eccessi (non troppo, come si è visto dalle recenti vicende che, iniziate con l’attacco alla Grecia, hanno messo in difficoltà tutta l’area euro); e, soprattutto, possono decidere come distribuire i carichi necessari,che è appunto il compito della politica.
La ricetta della Bce, in questo non diversa da varie altre che vengono diffuse in questo periodo, sembra far perno prima di tutto su un fattore: il fattore lavoro, attraverso il contenimento dei salari e la flessibilità dei contratti. Certo, la banca centrale non parla solo di questo. Sono necessarie anche “misure tese ad accrescere la flessibilità dei prezzi e la competitività non di prezzo” e “l’adeguata ristrutturazione del settore bancario”. Ma c’è una particolare insistenza sul fatto che “è indispensabile che nella contrattazione salariale vi siano istituzioni che consentano un opportuno aggiustamento dei salari sulla base delle perdite di competitività e delle condizioni di disoccupazione”.
Ora, da un punto di vista economico questi obiettivi sono sicuramente sensati. E’ dal punto di vista politico che il conto non torna. Quando si provoca un guaio il buon senso e l’equità vorrebbero che a sopportare il peso dell’aggiustamento fossero coloro che ne sono responsabili. Le notizie sui bonus miliardari persino a manager che escono da banche o assicurazioni fallite e salvate con i soldi dei contribuenti non sembrano proprio andare in questa direzione. E abbiamo appena appreso che la riforma delle regole per le banche è stata ulteriormente rinviata con l’accordo di Usa e Unione europea.
In realtà, il modello economico che ha provocato la crisi è ancora lontano dall’essere messo in discussione. Bisognerebbe che governi e istituzioni internazionali, mentre il conto viene inevitabilmente pagato da chi non ha certo le maggiori responsabilità per quanto è successo, cominciassero a porsi il problema di che cosa cambiare perché tutto ciò non si ripeta.
Il conto della crisi
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