• domenica , 22 Dicembre 2024

Il “condono europeo” protrebbe non bastare

Molti hanno applaudito quando la piccolo Slovenia ha ratificato il trattato con cui si crea il fondo europeo Salva-Stati (Efsf). Applausi ancora più scroscianti da parte del mondo della finanza al solo ‘sentore’ che il Fondo potrebbe essere utilizzato anche per ricapitalizzare le banche, sempre che lo deliberi il vertice dell’Eurogruppo previsto per domenica.
Non tutti, però, hanno stappato bottiglie di champagne. La ‘ricapitalizzaione’ delle banche tramite il Salva-Stati è un modo elegante per parlare di salvataggi – ove non di ‘condoni’ – a chi si trova in braghe di tela di fronte alla prospettive di insolvenze, dove aver sperato di incassare cospicui premi di rischio, finanziando Tesori ed imprese (sovente a partecipazione statale) che razzolavano male. Non è, però, solamente una questione di etica pubblica su cui sono lecite opinioni divergenti: il fallimento di banche (specialmente se a catena) causerebbe seri danni a miriadi di piccoli risparmiatori e potrebbe trascinare alcuni Paesi (segnatamente la Francia) verso una profonda e lunga recessione che avrebbe implicazioni negative per il resto dell’Eurozona. Al di là di considerazioni morali, quindi, occorre chiedersi se ci sono alternative al ‘condono europeo’ sotto il profilo strettamente economico. Ossia, le prospettive di crescita della stagnante economia del vecchio continente (e dalla ripresa dei redditi e dell’occupazione) sono migliori o peggiori ‘senza’ o ‘con’ interventi dei contribuenti europei per tirare i creditori fuori dalle sacche in cui si sono messi facendo prestiti a clienti non affidabili. Si può costruire uno scenario ‘senza’ partendo da un’analisi quantitativa di Carmen Reinhart, dell’Institute of International Economics di Washington, e di Kenneth Rogoff, dell’Università di Harvard, la cui prima parte è apparsa sull’ultimo numero dell’American Economic Review.
Lavorando su dati di 70 Paesi che rappresentano il 90% del Pil mondiale per un lungo lasso di tempo (1800-2009) ci si accorge anzitutto che le insolvenze di debitori ‘sovrani’, degli Stati quindi, sono un interludio in un mondo in cui i defaults sono stati la prassi. Il modo più efficace per affrontarli è stato quello di organizzare ‘insolvenze concordate’ prima che il bubbone scoppi. Dalla ricca banca dati di Reinhart e Rogoff si ricavano alcuni episodi specifici di insolvenze di massa di debito sovrano: le guerre napoleoniche, il periodo tra il 1820 ed il 1850 (quando la metà degli Stati allora esistenti, compresi tutti quelli dell’America Latina) furono in default, il periodo dal 1870 al 1890 e, infine, la fase dalla Grande Depressione fino al 1955.
Di fronte a queste insolvenze sistemiche, le crisi debitoria dell’America Latina (1987-1991) e dell’Asia (1997-2001) sembrano giocherelli da bambini.
Per alcuni Stati le insolvenze hanno avuto esiti pesanti. Le Newfoundlands persero l’indipendenza e divennero una provincia del Canada. Nel 1826, invece, la Grecia perdette la fiducia dei mercati e riuscì a prendere prestiti internazionali solo dal 1879. Nel 1876, l’Egitto divenne un protettorato del creditore (la Gran Bretagna). Dai dati si evince soprattutto che dalla fine della seconda guerra mondiale, la durata dei defaults è stata mediamente pari alla metà di quella registrata nel periodo 1800-1945. Si sono affinate le tecniche di prevenzione e specialmente di ristrutturazione (pur sempre un’ ‘insolvenza concordata’). Uno dei risultati principali è che dopo un lasso di tempo relativamente breve, gli Stati ‘insolventi’ hanno di nuovo accesso ai mercati internazionali e riprendono a crescere. Ce lo mostrano l’America Latina dagli Anni Novanta e l’Asia dall’inizio di questo secolo (dopo che la ‘crisi’ del 1997-2001 sembrava averla portata alla fame). Prima di condonare , è bene riflettere.
La storia economica insegna che il modo più efficace per affrontare le insolvenze degli Stati è stato «concordarle» prima del crac Ma la ricapitalizzazione delle banche tramite il fondo Efsf è un modo per salvare chi ha sperato di incassare cospicui premi al rischio

Fonte: Avvenire del 20 ottobre 2011

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