• domenica , 22 Dicembre 2024

Il Censis:dal Te Deum al De Profundis

Per il Rapporto Censis l’ interesse non è quasi mai mancato anche se sovente accompagnato da distinguo di non poco momento. La spiegazione di questo dualismo sta nel fatto che dietro la fantasia sociologica si profilava il discorso pubblico, ancorché non esplicitato, del pensiero cattolico democratico ad un livello di sofisticata elaborazione. Così la scoperta delle dimensioni della micro impresa e dell’ economia in grigio, all’ epoca in cui gli attori che dominavano il proscenio sembravano essere solo i Cavalieri delle grandi marche, quel metterci sotto gli occhi che il 90% dell’ imprenditoria italiana era formata da entità che non superavano i 10-15 dipendenti ci appariva come una realtà incontrovertibile ma anche provocatoria. Quasi in quella sottolineatura, non solo statistica ma valoriale, si nascondesse l’ aspirazione per un modello arretrato e senza ambizioni. In realtà alla sublimazione del «piccolo e bello» sottostava la crescita della Dc, come asse degli equilibri democratici e, ad un tempo, la permanenza di un potere inamovibile, se pur dotato di flessibilità e attitudine al compromesso. In questo contesto il reticolo delle piccole imprese, assurte dal Censis a soggetto primario della società, altro non costituiva se non l’ intreccio dell’ interclassismo cattolico,raccordato con la costellazione delle Partecipazioni statali, che depotenziavano ogni velleità liberista della grande impresa privata, del resto poco vogliosa di cimentarsi su questo terreno. Nell’ assieme un sistema reticolare socio-economico capace di secernere una ideologia di portata nazionale. Ogni dicembre, precedendo le altre feste comandate, il Rapporto Censis intonava l’ annuale te Deum in veste sobriamente laica. Solo se teniamo presente questo antefatto possiamo scandire la disperazione del 44° Rapporto come un discendere dal te Deum al de Profundis, alla melanconia scaturente da «una società senza regolazione dove tutto sembra aleatorio e oscillante, dove vince una deriva cinicopragmatica, in un egoismo autoreferenziale e narcisistico,dove tutto si traduce in una crescente marea di insicurezza personale, fenomeno non facilmente accettabile in una società che per generazioni ha perseguito la sicurezza come valore fondante. «Potrei seguitare con citazioni altrettanto desolate, ma vorrei tentare una schematica risposta che De Rita non dà, restando al di qua del giudizio politico. Un giudizio che nel discorso pubblico è rimasto fin qui ancorato alla crisi della sinistra, dopo la caduta del Muro, senza cogliere le conseguenze assai più vaste, dovute al crollo contemporaneo del partito cattolico, all’ insorgere della Lega, al prevalere del berlusconismo, tutti fattori che spiegano ampiamente la perdita di senso della società italiana. Al centro di tutto vi è la pervasività del berlusconismo, un fenomeno unico nella storia d’ Italia ed anche il peggiore. Mai, infatti, vi è stato nel nostro passato se non risalendo alla decadenza seicentesca del «Franza o Spagna purché se magna», un ceto di governo ed un capo che rinunciassero in partenza a qualsiasi pedagogia positiva di valori (di destra o di sinistra, che fossero, nazionalisti o pacifici, reazionari o progressisti, dispotici o liberali, tutti, però, propugnatori di una virtù civica, magari smentita nei fatti). Con Berlusconi no:i valori sono rappresentati ostentatamente dai vizi antropologici degli italiani (non pagare le tasse, vilipendere ed eludere la legge, inalberare il machismo esibito agli estremi della volgarità e della violenza, disprezzare lo Statoe le sue istituzioni e qualsiasi altra vergogna venga ogni dì inventata). Non che prima la virtù trionfasse, sol che la sua violazione era mascherata e procurava vergogna. Oggi è innalzata a valore di governo, dai grandi farabutti ai più meschini furbastri possono identificarsi nell’ esempio esaltato dall’ alto. Alla fine, come recita De Rita, «l’ individualismo atomizzato cresce e si corrompe in un pericoloso vuoto sociale».

Fonte: Repubblica del 6 dicembre 2010

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