di Carlo Clericetti
A sentire le dichiarazioni del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, ma anche – ahimè – del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, non vengono dubbi sulla direzione del “cambio di passo” che era stato invocato dal segretario del Pd Nicola Zingaretti: si tratta di una retromarcia, i passi sono all’indietro.
Gualtieri ha subito raccolto il suggerimento di Tito Boeri, un economista che gareggia con Pietro Ichino nel proporre provvedimenti che danneggiano i lavoratori. “In questa fase se non si eliminano almeno temporaneamente i disincentivi ai contratti a termine si rischia di avere un impatto negativo sull’occupazione”, ha detto il ministro. Ora, bisogna ricordare che “i disincentivi” ai contratti a termine introdotti dal cosiddetto “Decreto dignità” si limitavano a una norma che prevedeva che si dovesse motivare l’eventuale terzo rinnovo. Già allora molti gridarono alla catastrofe, ma dopo alcuni mesi i dati mostrarono che – guarda un po’ – la catastrofe non c’era stata. L’effetto del decreto era stato che era crollato il numero dei contratti precari e aumentato in modo corrispondente quello delle trasformazioni in contratti a tempo indeterminato, come si può vedere in questo grafico che era stato diffuso da Pasquale Tridico, che a elaborare quella norma aveva contribuito in modo determinante. Quanto all’occupazione, non era affatto diminuita, ma aveva invece proseguito nel trend di moderato aumento.
Lo scopo del decreto non era quello di influire sulla quantità di occupazione, ma sulla sua qualità. Questo fanno le norme: l’occupazione non aumenta né diminuisce per legge, le leggi cambiano le condizioni di lavoro. Si è visto anche con la sostanziale abolizione dell’art. 18: ne è seguito forse un boom occupazionale? Le piccole imprese hanno cominciato a spron battuto a diventare più grandi? Macché. Tutto come prima, tranne che chi non è protetto da quell’articolo può essere licenziato arbitrariamente. Insomma, un problema di ideologia e di potere nelle aziende. Gualtieri, che appartiene a un partito che si definisce “di centro-sinistra”, dovrebbe averlo capito. Invece pare di no.
Ma non meno scoraggiante è stata una dichiarazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel corso degli “Stato generali”, che in una breve frase è riuscito a infilare un paio di pessime idee: la detassazione dei rinnovi contrattuali e l’incentivazione del welfare contrattuale. Il bello è che la detassazione dei rinnovi è una richiesta esplicita della Cgil, il sindacato più “di sinistra”, che sembra anch’esso aver smarrito la bussola di un modello di società e procedere quindi a casaccio.
Perché sono pessime idee? Perché entrambe infliggono ulteriori picconate a un sistema fiscale che ha da tempo smarrito ogni razionalità, e viene ormai guidato dal criterio di arraffare dovunque sia possibile e nello stesso tempo essere utilizzato a favore di questa o quella categoria o gruppo di pressione. Detassare gli aumenti contrattuali significa che i lavoratori avranno un prelievo diverso non in base al livello del reddito, ma alle fortune dell’azienda in cui lavorano. Se l’azienda va a gonfie vele avrai aumenti detassati e quindi un’aliquota media più bassa, se l’azienda va male non solo non avrai aumenti, ma nemmeno sconti sul fisco. Perfetto, no?
Quanto al welfare aziendale, è un altro degli strumenti di smantellamento del sistema universalistico di protezione sociale e della sua progressiva privatizzazione. Si potrebbe dire ingenuamente: che male c’è se l’azienda mi paga l’asilo nido? Il fatto è che non lo paga solo l’azienda (in cambio, peraltro, di un mancato aumento in busta paga): lo paga anche lo Stato che rinuncia al prelievo su quegli importi (è una di quelle che in termini tecnici si chiamano tax expenditures). Soldi che avrebbero potuto essere usati per attivare asili nido pubblici, e che invece andranno a vantaggio solo di quel ristretto numero di lavoratori e degli asili privati con cui le aziende stipulano convenzioni. E’ più chiaro adesso?
Possono sembrare cose di importanza secondaria. Non lo sono perché indicano, appunto, una direzione di marcia. E la direzione continua ad essere quella – pessima – degli anni passati. Precarizzazione del lavoro perseguita nonostante l’evidenza della sua inutilità (e anzi dannosità) ai fini di un miglior andamento dell’economia, privatizzazione delle funzioni pubbliche, concessioni corporative invece di riforme razionali. Sempre più lontani dal modello disegnato nella nostra Costituzione, sempre più rinunciatari nel restituire dignità ed efficienza alle funzioni che il settore pubblico è più adatto a svolgere di quello privato. Se il “cambio di passo” significa accelerare in questa direzione, restiamo fermi, che si fanno meno danni.
Fonte: dal blog di la Repubblica del 18 GIU 2020