La storia economica, irrobustita da recenti ricerche quantitative, dimostra che c’è un nesso molto forte tra cultura, da un lato, e sviluppo, dall’altro. Nel 1830, il 43% del Pil mondiale era prodotto e consumato in India e Cina perché il 95% dell’umanità era in mera sussistenza. Un piccolo gruppo di Paesi ha avuto per 150 anni il monopolio del progresso tecnologico lo dimostrarono già le ricerche di Sven Ingvar Svennilson all’inizio degli anni Cinquanta grazie al capitale sociale e umano accumulato sin dal Rinascimento a ragione della priorità data dal ceto dirigente alla cultura e all’arte pur se unicamente a fine di ostentazione. John Douglas North lo ha confermato nel breve libro che nel 1991 gli fece meritare il Premio Nobel per l’economia.
Per venire a tempi più recenti e a vicende più vicine a casa nostra, due economisti distinti e distanti (tra di loro e dalle nostre questioni di bottega) hanno spiegato il miracolo economico italiano (ed il suo crepuscolo) in base allo stock di capitale umano e culturale esistente alla fine della seconda guerra mondiale in stato in gran misura latente, in quanto represso nel periodo precedente il conflitto nonché, ancor di più, nella fase di belligeranza: Richard Kindleberger di Harvard, storico economico di formazione neoclassica, e Ferenc Jánossy, ungherese, “political economist” dell’Università di Budapest. Non ebbero modo di leggere l’uno i lavori dell’altro (quelli di Kindleberger non circolavano nelle Repubbliche Popolari e il libro di Janossy venne tradotto dal magiaro al tedesco diversi anni dopo la pubblicazione degli studi di Kindleberger). Arrivarono a spiegazioni molto simili sia di quali furono le molle culturali del “miracolo” sia delle ragioni (tra cui principalmente la riduzione della priorità data a cultura ed istruzione nelle scelte pubbliche a partire dagli anni Sessanta, in sintesi la poca attenzione alla prima se non fosse di parte politica ed il mancato ammodernamento della seconda rimasta alla “riforma Gentile”).
Per quanto riguarda la cultura, uno studio recente di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) pubblicato dall’Iza (l’istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065 documenta che la più dispendiosa delle arti sceniche, l’opera lirica, è stata un volano di sviluppo. Il lavoro analizza, in termini rigorosamente quantitativi, come in 29 bacini territoriali tedeschi, l’esistenza di un teatro d’opera sia stata essenziale alla crescita perché ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compagnie di giro). Il capitale umano attira altro capitale umano, forma reti di capitale sociale ed avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Per quanto riguarda l’istruzione, alcuni esiti si toccano con mano in un lavoro quantitativo, fresco di stampa, ma poco pubblicizzato, dell’Isfol. Il libro (Istruzione, Formazione e Mercato del Lavoro: I Rendimenti del Capitale Umano in Italia) analizza il tracollo dei tassi di rendimento dell’istruzione. Se non “rende” istruirsi e coltivarsi, vale la pena farlo unicamente per godere di più dei beni e delle attività culturali, ossia solamente per migliorare la qualità dei consumi (sempre che si disponga delle risorse necessarie per fruirne)?
Il boom nasce dal capitale umano
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