Il susseguirsi di proposte e decisioni per affrontare la crisi fa tornare alla mente la definizione data da Bismarck dell’Europa: «Una nave carica di pazzi». Le energie intellettuali e politiche vengono spese per perseguire questo o quell’obiettivo specifico, ma ben poco impegno è stato dedicato per individuare le cause prime della crisi e raggiungere una diagnosi di consenso, utile per ridare ai cittadini europei le speranze di un futuro migliore. In Italia e non solo da noi chi vive di reddito fisso provenga dal salario, dalla pensione o da risparmi regolarmente tassati e saggiamente accumulati non può che uscire frastornato dalle sequenze di proposte, diagnosi e decisioni che riguardano le fonti della loro vita quotidiana: tassare le rendite finanziarie, già falcidiate dall’inflazione e dalle perdite di Borsa, e imporre una patrimoniale sui grandi patrimoni, senza specificare l’aggettivo qualitativo usato, instaurando per giunta il sospetto che ricco sia colui che guadagna più di 90 mila euro (già tassato per quasi tre quarti del suo reddito considerato ciò che paga per l’Irpef, l’Iva e i balzelli vari).
Anche l’Unione Europea sembra ossessionata dall’idea che ha portato al disastro quasi tutti i Paesi: tassare e indebitarsi; c’è infatti chi chiede eurotasse e chi eurobond, ma non da destinare alla crescita, che resta compito affidato ai Paesi membri, con alcuni tra essi che pretendono di dettare regole sfruttando le difficoltà altrui. Possibile che la nave politica sia carica solo dei pazzi di Bismarck? Può anche darsi che tasse e debito a livello europeo possano risultare utili se inquadrati in una diagnosi comprensibile di cosa sia necessario fare e di come farla, ma questa condizione di chiarezza manca. La crisi è più frutto di terapie carenti e affrettate come il fallimento della Lehman e il ritardato intervento sulla Grecia che di difficoltà, pur gravi, nascenti dalle mutate condizioni geopolitiche del pianeta. Molte tra esse sono scaturite non solo, come scrisse Keynes, dalla fervida mente di economisti morti, come la Tobintax, ma anche di quelli vivi, come la patrimoniale per sanare una tantum il deficit pubblico senza eliminarne le cause.
Il problema di fondo è l’arrivo sul mercato internazionale di miliardi di nuovi produttori e consumatori propiziato dai Paesi sviluppati che intendevano sfruttare le condizioni di bisogno dei Paesi arretrati per allargare il giro dei loro affari. Questa politica ha innalzato la domanda di materie prime e accresciuto il costo della vita, imponendo ai Paesi sviluppati di affrontare la concorrenza dei Paesi emergenti con aumenti di produttività ottenuti con innovazioni tecnologiche. Alcuni Paesi e tra essi l’Italia hanno sottovalutato l’importanza di questa necessità e continuato a privilegiare la solidarietà sociale trasferendo risorse invece di spingere la crescita. Si è cioè offerta assistenza e non opportunità di lavoro. L’assistenza, una volta data, è difficile da togliere e la deriva dell’errore commesso è l’aggressione al reddito e poi alla ricchezza da parte dello Stato. I Paesi, come Stati Uniti e Germania, che avevano puntato sull’innovazione tecnologica erano finora riusciti a fronteggiare la concorrenza a basso prezzo dei Paesi emergenti, ma oggi faticano a stare al loro passo, anche perché stremati dai disastri prodotti dall’idea che la finanza sapesse autoregolarsi.
E ragionevole pensare che i nuovi protagonisti geopolitici abbiano lo stesso interesse allo sviluppo dei vecchi e, pertanto, la smettano di assecondare la politica dei «compiti a casa» e li svolgano insieme in classe nel G8, nel G20 o dove vogliono purché lo facciano. Se avessero deciso di caricarsi subito dell’onere delle insolvenze dei crediti subprime e del debito greco, che sarebbe costato non più di tre miliardi di dollari, non ci troveremo nella situazione che attanaglia le due sponde dell’Atlantico, gettando ombre sul valore del dollaro e il futuro dell’euro attorno ai quali ruota la stabilità finanziaria e lo sviluppo reale. La crisi è globale, frutto di un mondo cambiato perché lo hanno voluto gli uomini che fanno la storia del mondo, e richiede pertanto soluzioni globali. Se non si provvederà, passeremo da una crisi all’altra dagli sbocchi sociali e politici imprevedibili. La crisi nordafricana docet. Non ci vengano poi a dire che la catastrofe non era stata prevista, perché lo è stata e per tempo: solo la politica non se ne era accorta essendo stata a sentire quei pochi economisti saldamente insediati dietro scrivanie ufficiali, che ripetono pappagallescamente idee imparate a scuola che la stabilità viene prima dello sviluppo; per poi dividersi nella concezione delle fonti dello sviluppo, da alcuni viste nell’intervento pubblico e da altri nell’iniziativa privata (per poi praticare l’uno e l’altra secondo convenienza).
Quando impareremo a mettere dietro queste scrivanie persone che sanno scrutare il futuro liberi da pregiudizi ideologici e intendono dedicarsi a perseguire il bene comune? Per far ciò occorre pervenire a una diagnosi di consenso e assegnare un mandato politico coerente ai designati agli incarichi di governo e a quelli tecnici. È appunto ciò che manca.
Il balletto anticrisi
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