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I ricchi piangono e gli operai fischiano

Nei manuali di scienza politica delle società complesse c’è scritto che nella primissima fase della legislatura un nuovo governo è bene che vari riforme incisive (in gergo, strutturali) anche a costo di presentarsi come impopolare, ovvero di perdere quote di mercato dell’opinione pubblica. L’esecutivo Prodi è riuscito in un contro-miracolo: non ha avviato, o se preferite, ha procrastinato le vere riforme ed è arrivato lo stesso a fare il pieno dell’impopolarità.
Il Nord Est del lavoro autonomo è stato in queste settimane la spina dorsale delle mobilitazioni di piazza del centrodestra e il Nord Ovest operaio, con l’assemblea di Mirafiori, ha riservato severe contestazioni ai tre leader sindacali di Cgil-Cisl-Uil. Fischiati in quanto colpevoli di aver ceduto alle esigenze del governo amico. Vicenza e Torino unite nella protesta sono diventate l’asse dello scontento nazionale contro la Finanziaria. L’episodio della Fiat è particolarmente allarmante per l’Unione e lo è per almeno tre ordini di motivi. Come hanno documentato i ricercatori bolognesi dell’Istituto Cattaneo, il voto degli operai dipendenti di aziende private è stato il cambiamento più importante fatto registrare dagli orientamenti elettorali del 2006 e a beneficiarne è stato il centrosinistra. Cinque anni prima, alle Politiche del 2001, gli operai, le loro famiglie e i pensionati ex lavoratori manuali avevano dato un inatteso e importante contributo alla vittoria elettorale di Silvio Berlusconi. Il secondo motivo ha del paradossale: il governo ha impostato una Finanziaria da 35,4 miliardi (invece dei soli 15 necessari per rientrare nei parametri di Maastricht) anche e soprattutto per agire sulla redistribuzione del reddito, giudicata da Romano Prodi «iniqua». Ebbene una porzione significativa dei fruitori dell’ operazione che avrebbe dovuto portare i ricchi a piangere e gli operai perlomeno a sorridere non deve averlo capito. Ed evidentemente Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti non sono riusciti a spiegarglielo.
La terza disdetta per Prodi è di carattere più squisitamente politico. Avendo l’Unione una maggioranza parlamentare risicata, Prodi ha in questi mesi abilmente allargato il perimetro della sua costituency coinvolgendo forze esterne alle Camere, in primo luogo i sindacati che lo hanno ripagato sostenendolo anche nei momenti più difficili. Dopo Mirafiori quest’appoggio non è affatto detto che resti inalterato, se non altro perché le centrali sindacali saranno costrette a fare i conti con la base scontenta. Il rischio, abbastanza evidente già in queste ore, è che la contestazione dei leader confederali diventi la tomba della cosiddetta Fase due, o perlomeno di uno dei suoi interventi qualificanti, la riforma delle pensioni. Le prime dichiarazioni rilasciate da esponenti della sinistra radicale paiono confermare questi timori. Il capogruppo dei Comunisti Italiani a Montecitorio, Pino Sgobio, ha proposto addirittura una nuova scala mobile, un meccanismo di indicizzazione automatico di salari e pensioni, come segnale politico che il governo dell’ Unione dovrebbe dare al nuovo «malessere operaio». Se all’interno del governo qualche ministro aveva coltivato l’illusione dell’ennesima riedizione della politica dei due tempi, prima una Finanziaria per soddisfare Bruxelles e poi un pacchetto di riforme capaci di avviare la crescita, purtroppo sarà costretto a ricredersi. Gli errori della Fase uno stanno già ricadendo pesantemente sulla gestazione della Fase due, compromettendola. Non a caso si racconta che molte riunioni ministeriali terminino con quello che sta diventando un imbarazzante refrain: «Sappiamo cosa si deve fare, ma non possiamo». L’esecutivo ha rinviato le riforme ma ha scontentato tutti La contestazione può vanificare l’intervento sulle pensioni

Fonte: Il Corriere della Sera del 9 dicembre 2006

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