La “marcia su Roma” dei tassisti è un capitolo interessante e illuminante della biografia della nazione. Lo è dal punto di vista etico e politico. Ormai da tre giorni i tassisti italiani sono diventati come i camioneros cileni. Scioperi spontanei e blocchi stradali. Aggressioni inopinate, slogan violenti e striscioni inqualificabili davanti a Palazzo Chigi. “Saremo il vostro Iraq”, minacciano i duri di tassametro selvaggio. Poco senso di responsabilità verso gli italiani che, in città, ci stanno perdendo tempo e denaro. Nessun senso di solidarietà verso i nostri soldati che, in Iraq, ci hanno perso addirittura la vita.
Sul piano etico, chiunque lavori ha il diritto pieno e incontestabile di difendere i propri interessi. Qui non c’entra la tessera di partito, ma conta solo l’esercizio della democrazia. Ma questo è il punto. La democrazia non nega, contempla il conflitto (anche se Fausto Bertinotti, almeno nella sua nuova veste di presidente della Camera, farebbe bene a non compiacersene troppo). Purché il dispiegarsi del conflitto avvenga secondo le regole, e la difesa di un interesse soggettivo non si traduca in un danno intollerabile per l’interesse collettivo.
Questo confine, nella protesta dei tassisti, è stato abbondantemente superato. Lo dimostrano i fatti di cronaca, che evidenziano un palese snaturamento del “servizio pubblico” di cui i tassisti sono gestori a tutti gli effetti. Lo conferma la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero, che ha giudicato “illegittime” le agitazioni di questi giorni, poiché implicano “il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente alla libertà individuale”.
Sotto questo profilo, che ovviamente è anche giuridico, i tassisti sono come i piloti o i controllori di volo. Come gli infermieri o i metalmeccanici. Sul piano politico, non si può quindi non approvare la linea di fermezza adottata dal governo. E qui la vicenda segnala un apprezzabile cambio di orizzonte culturale dentro il centrosinistra.
La tattica di Prodi che dice “non ci faremo condizionare” va coniugata alla strategia di Bersani che afferma “senza furore ideologico, ma vogliamo far passare il principio che cambiare si può”. Il decreto sulle liberalizzazioni appena varato dall’esecutivo, pur con i suoi limiti, configura concretamente e simbolicamente una vera “svolta liberale”.
Inconsueta, per la sinistra. Eppure, autenticamente “di sinistra”. Per la prima volta, assurge al centro dell’arena economica il vero “soggetto debole” del sistema, che non è il lavoratore autonomo asserragliato nella trincea della corporazione di riferimento, ma è l’inerme “cittadino-consumatore”. Non è (o non è soltanto) “ceto medio”. È invece un ceto indistinto e trasversale. Che nella società globale e low cost comincia ad avere coscienza di sé. Accenna a pretendere tutela. Inizia ad esigere rappresentanza.
Se la sinistra post-operaia lo eleva finalmente a “classe”, compie una grande rivoluzione identitaria. Anche a costo di qualche strappo sociale. Anche a costo di un cortocircuito nella tradizionale cinghia di trasmissione del consenso, senza il quale non c’è mai un avanzamento della società verso la modernizzazione.
In questo sclerotizzato Sistema-Paese, che ci costa 22 miliardi di euro all’anno in termini di mancata deregulation, ci sarà sempre qualcuno (piccola lobby o Potere Forte, ordine professionale o sindacato confederale) pronto a spiegare al governo di turno che qualunque modifica del suo status quo è un maleficio. Ma perché questa rivoluzione sia compiuta, è non solo opportuno, ma assolutamente necessario che lo stesso approccio (questo sì, concretamente riformatore e riformista) sia adottato anche verso gli altri settori “critici” del caso italiano.
Quelli che indica lo stesso Bersani: monopoli elettrici, energetici o telefonici, e soprattutto “pubblico impiego e spesa pubblica”. Questo chiama in causa Confindustria da una parte, Cgil-Cisl-Uil dall’altra. Interessi ben più corposi di quelli coinvolti dalla liberalizzazione dei taxi, delle farmacie o degli avvocati. Questi ultimi, come ricorda Luca Ricolfi, rappresentano 1 elettore ogni 1.000. i primi, tra imprese e sindacati confederali, ne esprimono all’incirca 350 ogni 1.000. Buona parte della constituency politico-elettorale dell’Unione.
Una riflessione, uguale e contraria, si impone per il centrodestra. La mediazione di Alemanno (comunque accolto dai rivoltosi romani al grido di “duce, duce”) ha prodotto il risultato apprezzabile di far recedere dalla protesta cilena almeno alcune sigle sindacali. Ma per il resto (nel silenzio imbarazzato dei liberisti alle vongole di Forza Italia) An brilla per demagogia e disinvoltura. Gianfranco Fini condanna le violenze più estreme, ma poi aggiunge che “bisogna comprendere l’esasperazione di chi lavora”.
Ma cosa c’è da comprendere, in chi insulta Fassino in fila al check in dell’aeroporto di Torino, o in chi sputa sulla macchina di Mussi, urlando in tutti e due i casi “comunista”? Cosa c’è da comprendere, in chi spacca il tassametro di un collega, o in chi sfascia i vetri dell’auto “Noleggio con conducente”, gridando in tutti e due i casi “crumiro bastardo”? L’indulgenza del leader di An, verso la piazza tassista che agita fiamme tricolori e teschi bianchi in campo nero, è inquietante.
Quasi parlasse di “camerati che sbagliano”. C’è un riflesso pavloviano in questa destra, che nonostante tutti i lavacri di Fiuggi e tutte le “svolte” vere o presunte, non riesce mai ad uscire dal perimetro della sua angusta rappresentanza sociale e della sua inaridita radice culturale. Viene da chiedersi quale sia la natura di questa destra, che ancora una volta (come già fece nel 2000) cavalca la protesta sudamericana. Altro che “destra liberale”.
Altro che Luigi Einaudi o Karl Popper, acquisizioni recenti del diorama finiano. Qui torniamo a Starace, e arriviamo a Peron. Un partito-corporazione dentro e contro lo Stato, che attinge al passatismo fascista e lo rinverdisce per banale cinismo propagandista.
La destra dovrebbe rileggersi Adam Smith. “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”, scriveva nella Ricchezza delle Nazioni.
Oggi nessuno si aspetta corse gratuite dai tassisti né cause gratis dagli avvocati. Ma quando aggrediscono un ministro o paralizzano una città, ci si chiede quale sia la “mano invisibile” che li guida. Probabilmente quella dell’egoismo sociale e oligopolistico, che li spinge a difendere comunque, senza se e senza ma, l’interesse particolare della corporazione. Non certo quella della società aperta e del libero mercato che, come insegnava lo stesso Smith, consentiva alle categorie produttive di promuovere comunque, anche “senza saperlo e senza volerlo, l’interesse generale della società”.
Fonte: La Repubblica del 6 luglio 2006