• domenica , 22 Dicembre 2024

I fantasmi di agosto

Sarà un agosto di fuoco sui mercati, l’effetto contagio della crisi dell’euro è in pieno atto. E l’Italia, con lo spread a 500 punti, è più vicina al baratro.
Sarà un agosto di fuoco sui mercati e ieri ne abbiamo avuto un assaggio amaro. L’aiuto europeo alle banche spagnole è stato considerato, com’è accaduto per tutte le ultime decisioni comunitarie, una pezza tardiva, un tampone inadeguato al dramma del debito sovrano. L’effetto contagio della crisi dell’euro è in pieno atto. E l’Italia, con lo spread a 500 punti, è più vicina al baratro. Un osservatore frettoloso potrebbe dire che siamo allo stesso livello dell’estate scorsa, ma paghiamo più tasse e cresciamo di meno. Uno più attento obietterebbe che senza l’opera del governo tecnico, faremmo compagnia alla Grecia, privi di sovranità e di dignità. La differenza è anche un’altra: un anno fa gli untori eravamo noi, oggi sono gli spagnoli. La malattia è comune, la terapia incerta, il medico europeo assente.
La dimostrazione che di effetto contagio si tratta è semplice. I mercati guardano con meno attenzione ai fondamentali dell’economia, non distinguono fra i vari Paesi in difficoltà, li trattano allo stesso modo. E scommettono sempre di più sulla fine dell’euro, specie dopo l’irrigidimento tedesco successivo al summit di Bruxelles con il varo, solo formale purtroppo, del cosiddetto scudo antispread . L’Irlanda, che è sottoposta a un programma di aiuti, ha rendimenti inferiori ai nostri su tutte le scadenze dei propri titoli pubblici. Eppure ha un disavanzo che viaggia all’8,3% e un debito in crescita (116). Anche la Spagna ha un deficit peggiore (6,3%) e indebitamento oltre l’80%. Ha visto trasformarsi il debito bancario in debito sovrano. Da noi è accaduto il contrario. Madrid ha vissuto di bolle (come quella immobiliare con 700 mila vani invenduti) e non ha la nostra struttura industriale, né il nostro risparmio privato.
Guardiamo avanti. I compiti a casa, bene o male, sono stati fatti, il pareggio di bilancio è a portata di mano, anzi c’è un avanzo primario atteso per il 2012, al netto degli interessi, pari al 3,6% del Pil. L’approvazione del fiscal compact , le regole sul bilancio pubblico, è stato un atto politico importante. Sull’efficacia delle riforme si può discutere, ma ci sono e daranno i loro frutti: quando non si sa. I tagli alla spesa sono ancora timidi, ma la strada è giusta. Che cosa manca, allora? La crescita, certo. Che si crea non spendendo di più, ma con una maggiore produttività. È innegabile che con spread così elevati, e per troppo tempo, ogni sacrificio risulterà vano e poche aziende reggeranno la concorrenza di chi paga, in Germania ma non solo, il denaro quattro volte di meno. E, dunque, una terapia antidebito (al 123%) è indifferibile, ma di complessa attuazione. Al di là delle smentite, non è esclusa una manovra correttiva, di soli tagli, si spera. La leva fiscale è largamente in eccesso e ha uno sgradevole effetto depressivo.
Gran parte di quello che era possibile, in questi mesi, è stato fatto. La qualità di ciascun intervento può essere discussa; la mole, l’indirizzo e la serietà meno. Un segnale importante deve venire dalla politica. L’incertezza sul 2013 non è solo legata alla figura di Monti (ci sarà o no?). Ma al fatto che l’Italia prosegua lungo il tracciato delle riforme.
Nel clima di una campagna elettorale già di fatto avviata, il florilegio di promesse senza fondamento alimenta in chi dovrà votare l’idea che, chiusa la parentesi del governo tecnico, il periodo dell’austerità impostaci dall’Europa, si possano riaprire le vallate verdi di una nuova spesa pubblica o tornare, con un colpo di bacchetta magica, a tagli secchi di aliquote fiscali. Al contrario, per chi investe dall’estero o è chiamato a sottoscrivere i nostri titoli del debito pubblico (da qui a dicembre 218 miliardi!), tutto ciò finisce per cementare la diffidenza verso un Paese storicamente inadatto a controllare la spesa e il debito pubblico. Capace di improvvisi colpi di reni ma refrattario alla disciplina di bilancio. E dal quale, dopotutto, è meglio stare alla larga.
Non sappiamo chi verrà dopo Monti. Ed è giusto così. I tempi della democrazia, per fortuna, non sono ancora scanditi dai mercati. Ma non sappiamo nemmeno quale sarà il campo di gioco della politica, e persino i suoi protagonisti, il nome dei partiti, la struttura delle alleanze. E, soprattutto, con quale legge elettorale si andrà a votare. Il porcellum , l’attuale sistema, non è da democrazia europea evoluta. La bocciatura di Moody’s è stata molto criticata, ma avanzava proprio questi dubbi. Gli interrogativi che ci poniamo noi e che si pongono gli stranieri ai quali chiediamo ogni giorno di avere fiducia sulla nostra solvibilità di debitori, ma anche sul grado di applicazione delle nostre leggi, sul funzionamento del nostro mercato, sull’efficienza dello Stato e della giustizia.
Non possiamo salvarci da soli. Ma non possiamo nemmeno dare tutta la colpa all’Europa, che pure ne ha tante. In attesa di misurarci con i fantasmi d’agosto sui mercati, ai quali siamo pericolosamente esposti, il governo è chiamato a moltiplicare gli sforzi. La politica a mostrarsi più matura e responsabile, a dar vita a un confronto di idee sostenibili, non di pietose bugie propagandistiche. A riformarsi, senza inutili promesse. Un impegno comune per evitare che il nostro Paese finisca commissariato, costretto a firmare un umiliante protocollo di assistenza. E allora, con buona pace di tutti, il programma di governo per la prossima legislatura sarebbe già scritto. A Bruxelles, a Francoforte, a Washington. Non a Roma.
Sia il Governatore della Banca d’Italia sia più recentemente il Fondo monetario e l’ufficio studi della Confindustria hanno chiarito che dei 500 maledetti punti di spread , solo 200 sono di nostra esclusiva responsabilità. Gli altri sono il conto, elevato, che paghiamo alla accidia europea, alla testarda resistenza dei tedeschi e dei loro alleati. Lo scudo strappato da Monti a Bruxelles è un ombrello teoricamente perfetto, che nessuno può, al momento, aprire. La settimana prossima sarà decisiva per sapere se dovremo vivere un agosto di angoscia, temendo addirittura la fine dell’euro, o potremo guardare con maggiore fiducia ai prossimi mesi confidando nella piena operatività del fondo salva Stati (Esm, European Stability Mechanism ), su cui la Corte costituzionale tedesca si esprimerà solo il 12 settembre. Se il fondo fosse usato come garanzia ad eventuali perdite della Bce e godesse di un effetto leva potrebbe mobilitare fino a duemila miliardi, sufficienti per arrestare la speculazione. L’alternativa potrebbe essere un massiccio intervento della Bce, una sorta di quantitative easing , che secondo alcune interpretazioni statutarie non è consentito perché prefigurerebbe una monetizzazione del debito attraverso l’acquisto sul mercato di titoli dei Paesi in difficoltà. Ma di fronte a una deflazione profonda, con l’euro a rischio di rottura, la Banca centrale, presieduta da Mario Draghi, vi sarebbe costretta per rispettare la propria missione, che è quella della stabilità monetaria. Ma, a quel punto, forse sarebbe troppo tardi. Per tutti.

Fonte: Corriere della Sera del 21 luglio 2012

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