Le elezioni generali in India sono previste per la prossima primavera. Si spera, ma nulla lo garantisce, che quella scadenza induca le autorità giudiziarie di New Delhi a concludere in base alle norme del diritto internazionale la indegna vicenda che ha portato all’arresto dei due marò. Se ne parliamo ancora una volta è per l’atmosfera di dimenticanza e di rassegnazione che sembra avvolgere quel fatto e basta pensare alle prolungate campagne di solidarietà che hanno accompagnato i rapimenti di altri nostri connazionali ad opera di Al Qaeda per far risaltare il paragone negativo. Quasi l’inaccettabilità del terrorismo islamico rendesse equiparabile e in fondo tollerabile subire una azione con caratteristiche similari se commesse da una grande potenza che vanta la sua democrazia. Quanto al comportamento delle nostre autorità militari e civili esso appare biasimevole, debole e incerto da molti punti di vista.
Una volta ancora è rifulsa la innata tendenza ad affondare nelle brutte figure, tanto che si può dire che gli unicia salvarsene sono stati i due marò che in ogni apparizione pubblica hanno mostrato una esemplare compostezza, una eleganza degna di una forza armata di livello internazionale, il silenzio dignitoso di chi è fedele, anzitutto, alla Bandiera, non pietisce favori, pretende giustizia. Per contro sembra ci si stia rassegnando alla scappatoia di far scontare in patria una eventuale condanna inflitta altrove. Un precedente gravissimo in cui da parte italiana si riconoscerebbe l’obbligo di sottoporre a giudizio penale, condotta da forze estere, membri delle proprie forze armate per un’azione svolta nell’ambito e secondo le regole di una missione internazionale. Neppure in regime armistiziale dopo l’8 settembre subimmo una umiliazione simile.
All’assenza di una forte strategia da parte nostra ha fatto riscontro il manifestarsi patetico di chi ha creduto opportuno presentarsi come il campione di un “buonismo” post coloniale mescolato alla presunta furbizia del mercante pronto a risolvere ogni controversia tramite mance generose, corruzioni sotto banco, laute cauzioni non richieste. Così si è degradata la trattativa ad un livello volutamente basso, invece di portarla a livello Nato, dove avremmo potuto far valere le nostre alleanze internazionalie il valore contrattuale della nostra presenza nelle missioni. Non si è neppure tenuto in conto che l’India non è più da tempo quel paese tollerante, spirituale e pacifico come piace descriverloa tanti acritici ammiratori occidentali (vedi l’acuta critica di Antonio Armellini su Politica estera) ma una potenza che anzitutto basa la sua politica estera sulla logica dei rapporti di forza, nazionalista e poco incline al negoziato. Così ha finito per avere un effetto negativo il comportamento querulo da parte italiana, tipico di uno Stato debole e incerto. Un balbettio che evitando di portare la vicenda a un livello internazionale condiviso e risentito della Nato non ha saputo esercitare su Delhi la pressione che nasce dal desiderio di diventare membro del Consiglio di Sicurezza.
Pretesa ben nota e prioritaria dove i rapporti in sede Onu dell’Italia avrebbero potuto giocare nel comprovare o meno che l’India è una nazione rispettosa degli obblighi internazionali, dispostaa fare ogni sforzo nella lotta antiterroristica alla pirateria, non sacrificandola a spicciole vicende di elezioni locali indiane. Da ultimo resta un aspetto gravissimo, non ancora risolto neppure dopo questa crisi: la confusione nelle linee di comando che governano l’impiego della marineria militare italiana imbarcata su navi civili come scorta.
Questi marò non sono contractors (malgrado la sprovveduta Lady Ashton li ha chiamati tali) anche se la loro spesa è rimborsata dagli armatori al ministero della Marina. Membri delle Forze Armate hanno diritto di operare nell’ambito di regolari catene di comando e di non essere soggetti alle trovate improvvide di qualche armatore privato, aduso a compravendite di contrabbando.
I due maro’ e l’Italia dimentica
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