di Giuseppe Pennisi
La guerra commerciale tra Usa e Cina ieri ha fatto un passo in avanti, perché l’amministrazione Trump ha fatto scattare dazi addizionali del 10% su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi, mentre Pechino ha imposto ‘tariffe di ritorsione’ su 60 miliardi di importazioni dagli Usa (anche sulle noccioline americane).
L’escalation è molto significativa. Da un lato, aumenta di ben cinque volte il valore delle esportazioni cinesi colpite da dazi in America. Da un altro, mentre le prime ondate di aumenti tariffari americani colpivano specialmente semimanufatti cinesi e quindi irritavano le industrie statunitensi in quanto ne aumentavano i costi di produzione, questa volta la scure è su computer da tavolo e lampadine (un quarto del valore dell’import dei prodotti interessati), incidendo meno, quindi, sui costi di produzione delle imprese americani.
Al di là di questi aspetti, che possono sembrare tecnici (ma non lo sono), la situazione è preoccupante perché i negoziati tra Washington e Pechino si sono interrotti, e gli Usa hanno preannunciato una nuova ondata di misure restrittive nei confronti dell’import dalla Cina tra qualche mese se la controparte non mostrerà di voler risolvere alcuni nodi strutturali quali l’opacità delle sovvenzioni alle aziende, le barriere non tariffarie all’ingresso di prodotti e servizi dal resto del mondo e soprattutto la maniera disinvolta (e contraria alle regole internazionali) con cui vengono violati brevetti e copyright.
Gli Stati Uniti potrebbero averla buona ed ottenere una modifica sostanziale di numerose prassi cinesi se cercassero di guidare un fronte di Paesi avanzati: in molti sono irritati dal modo in cui la Cina, una volta ottenuta l’ammissione nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ( Wto) adotta misure contrarie alla spirito ed alla lettera del corpus giuridico dell’istituzione in cui è stata accettata sulla base della promessa di diventare un’effettiva economia di mercato. La Casa Bianca sta commettendo due errori fatali. Da un lato il presidente Trump non crede né nel multilateralismo né nelle organizzazioni internazionali, quindi gli Usa non si sono rivolti alla Wto e non hanno neanche cercato di porsi alla guida di una coalizione di altri Paesi che nei confronti di Pechino hanno problematiche simili alle loro.
Dall’altro l’amministrazione Usa si è posta l’obiettivo di giungere al ‘pareggio’ nell’intercambio tra i due Paesi nella errata convinzione che le importazioni dalla Cina danneggino il manifatturiero americano. È un obiettivo impossibile, dato il differenziale, e soprattutto inutile poiché il processo di deindustrializzazione americano viene da lontano ed è molto avanzato (oggi il manifatturiero è meno di un quinto del Pil Usa). Non può certo fare marcia indietro restringendo l’import dalla Cina. Il conflitto, quindi, rischia di aggravarsi. E di coinvolgere anche Paesi formalmente ‘neutrali’ come l’Italia, se non altro perché aggraverà il rallentamento della crescita mondiale.
Fonte: da Avvenire del 25 settembre 2018