• lunedì , 16 Settembre 2024

I DS e la libertà economica

Frustrazione. Chiamiamola così. Parlando in questi giorni con gli esponenti della Quercia, l’impressione è che un forte senso di frustrazione si stia impadronendo degli uomini che guidano, al centro o in periferia, il più forte partito della maggioranza. Lo scoramento è così evidente che affermazioni come «gli altri la banca se la fanno quando vogliono, noi restiamo invece fuori dai grandi giochi» oppure «altro che finanza rossa, non riusciamo nemmeno a mettere d’accordo i manager di Unipol con quelli del Monte dei Paschi!» viaggiano di bocca in bocca e rischiano di alimentare, nei dibattiti del Festival dell’Unità che si apre oggi a Pesaro, il vecchio complesso d’essere la prole d’un dio minore. Il blitz che ha portato a varare la fusione «prodiana» tra il Sanpaolo e Banca Intesa, i dissidi al vertice dell’Unipol, la puntigliosa difesa della senesità da parte dei vertici del Mps sono gli episodi che hanno dato corpo allo smarrimento estivo della Quercia. Non solo i grandi affari non vengono discussi con il Botteghino ma più in generale i diessini temono di non essere giudicati dal mondo economico come interlocutori affidabili bensì solo gente capace di fare animazione politica, organizzare primarie da leggenda e, soprattutto, portar voti. Per i grandi disegni di potere e per l’aggregazione di interessi, invece, gli interlocutori sono altri. Sarebbe fin troppo facile rispondere ai dirigenti della Quercia che chi semina vento raccoglie tempesta, la dissennata condotta dell’operazione Unipol- Bnl non poteva che generare nel medio termine conseguenze negative. Ma si tratterebbe di una considerazione stile Maramaldo e comunque del tutto parziale. Nei rapporti con la grande finanza, i ds pagano il prezzo delle loro timidezze più che l’infatuazione per gli immobiliaristi. Sono anni ormai che nei congressi del maggior partito della sinistra non si danno vere battaglie e fuori dalle grandi assise nemmeno si riesce a imbastire con i compagni di Siena o della Cgil quello che una volta si chiamava «franco dibattito». Da qui l’idea piuttosto radicata nella società del Nord che la Quercia sia destinata a restare una grande incompiuta.
L’avvilimento odierno sovrappone però errore a errore, perpetua la vecchia idea di voler essere centrali nel rapporto politica- affari, mentre aver le mani libere può rappresentare una di quelle occasioni che in politica capitano di rado. L’ampia eco avuta dai provvedimenti di liberalizzazione sostenuti dal ministro Pierluigi Bersani dimostra come sia maturo il passaggio da un’economia centrata sulla stipula di patti neocorporativi a un assetto da vera società aperta. Solo così lo scettro potrà passare un giorno al cittadino- consumatore ed essere sottratto alle lobby, anche a quelle cariche di prestigio e di storia. Il patto dei produttori, la formula grazie alla quale la sinistra è stata cooptata nel governo allargato dell’economia, è da tempo entrato in contrasto con le stesse esigenze di rilanciare crescita e competitività del Paese. Ma per non restare ostaggio di un pugno di tassisti che roteano minacciosamente le mani c’è bisogno di una larga costituency delle libertà economiche che faccia della concorrenza la sua bandiera. E, vista anche la balbuzie delle organizzazioni dei consumatori, chi meglio di una forza profondamente radicata nel Paese e capace di far politica fuori dalle istituzioni può ricoprire questo ruolo? I Pietro Ichino e i Nicola Rossi non vengono dal nulla, sono il frutto di una grande tradizione politica che, almeno in quei casi, ha saputo fare pienamente i conti con il mercato.

Fonte: Il Corriere della Sera del 31 agosto 2006

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