AD UN anno dal conseguimento del titolo di studio solo la metà dei laureati, in media, trova lavoro. Solo dopo cinque anni la percentuale sale all’86,4%. La busta paga iniziale è modesta, poco più di mille euro. Si tratta di alcuni dei dati riportati da un recente rapporto di Alma Laurea. La situazione reale è, però, assai più diversificata e, in molti casi, più confortante di quanto i dati medi facciano intendere.
Non solo per le ovvie differenze che ci sono tra i corsi di studio che immettono sul mercato un numero di laureati decisamente in eccesso rispetto alla domanda e quelli che ne offrono un numero qualche volta insufficiente. Ma anche per le differenze di voti e di tempi con cui si consegue la laurea. Chi consegue il titolo di studio nei tempi previsti e con una votazione elevata trova abbastanza rapidamente lavoro. E ciò è tanto più vero se questo risultato arriva a conclusione di un percorso di qualità riconosciuta.
Tutti continuano a ripetere che nella società della conoscenza occorre investire su formazione, ricerca e capitale umano. Si dimentica spesso di aggiungere che quello che serve è una qualità adeguata della formazione e della ricerca… La qualità dipende, non c’è dubbio, dalle caratteristiche dell’offerta dei nostri Atenei. Non è sempre facile per un giovane orientarsi. Anche perché gli Atenei, negli ultimi anni, nel modificare i piani di studio per adeguarli alla riforma che ha introdotto i due livelli di laurea, hanno moltiplicato, spesso in maniera eccessiva, gli indirizzi di studio rendendo ancora più arduo il già difficile orientamento dei giovani.
L’istituzione di un’Agenzia pubblica, per la valutazione della didattica e della ricerca delle Università, è stata una scelta opportuna ed importante, fatta di recente dal Governo. Essa sarà estremamente utile, oltreché per distribuire le risorse pubbliche tenendo conto della diversa produttività scientifica, anche per far conoscere a tutti le differenze spesso notevoli che ci sono tra le diverse offerte formative.
Ma non basta. I giovani devono guardare al proprio percorso formativo con un’ottica diversa da quella della sola conquista del famoso pezzo di carta, il certificato di laurea, che una volta apriva da solo le porte del mondo del lavoro. L’idea che dovrebbe prevalere è quella di un investimento da fare guardando alle alternative offerte dalle diverse sedi universitarie e ai risultati attesi da una scelta o dall’altra.
Ci sono, in verità, pochi incentivi a muoversi in questa direzione. In un mondo che chiede crescenti competenze e professionalità, sarebbe necessario offrire ai giovani percorsi che premiassero il merito con un adeguato sistema di borse di studio, consentendo le stesse opportunità a tutti. I dati suggeriscono che ancora oggi è bassa la percentuale, quasi la metà, delliscrizione all’università di figli di genitori non laureati rispetto ai figli di genitori laureati.
Ciò limita quella maggiore mobilità sociale che è indispensabile quando si voglia mettere al servizio dello sviluppo la risorsa più importante che abbiamo a disposizione che è rappresentata dal capitale umano.
C’è anche un’altra mobilità che occorre incentivare. La collettività si deve far carico delle risorse necessarie ad assicurare lo spostamento degli studenti tra le diverse sedi universitarie in relazione all’attrattività della loro offerta formativa.
Ciò significa che la frequenza di un corso di studi in una città diversa da quella di residenza potrebbe diventare molto più frequente di quella che succede oggi. Serve, naturalmente, un forte impegno per residenze studentesche e un programma di crediti offerti ai meritevoli da restituire dopo la laurea.
Le scelte, fatte per assicurare qualità al proprio percorso formativo, finirebbero, tra l’altro, per aumentare la concorrenza degli atenei e, di conseguenza, contribuirebbero a migliorare l’offerta didattica. I tempi che trascorrono oggi dal momento della laurea fino alla conquista di un posto di lavoro si spiegano, anche se questo non è l’unico motivo, con la presenza di una percentuale di laureati che arrivano alla conclusione dei loro studi in tempi troppo lunghi e con risultati piuttosto modesti. Anche in questo siamo distaccati dagli standard dei principali paesi europei. Non ce lo possiamo permettere perché questo vuol dire sprecare la risorsa migliore che abbiamo, il capitale umano.
Investire su di esso significa non soltanto mettere a disposizione dei giovani e delle loro famiglie le risorse che sono necessarie. Significa dare i giusti segnali anche rispetto al nostro punto di riferimento più immediato, lo spazio europeo della formazione e della ricerca. C’è un deficit di internazionalizzazione nel nostro paese, riguardo a questi aspetti. Esso va colmato. Occorre che i nostri giovani aumentino le loro esperienze in Europa. E’ assai probabile che, se così fosse, molti si convincerebbero della centralità dell’elemento qualità della formazione.
I diritti del capitale umano
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