di Fabrizio Onida
L’elenco recentemente ritoccato di meno di 100 attività esentate dall’attuale serrata, perché considerate dai decreti governativi “essenziali e indispensabili”, va allargato al più presto per evitare il rischio che sI paralizzino intere fasce del complesso apparato produttivo su cui si regge l’economia nazionale. Basti un dato della contabilità nazionale dell’Istat: ogni 100 euro di prodotto interno (PIL) richiede l’attivazione di quasi 50 euro di attività industriale e 43 euro di servizi (assai meno in agricoltura, rifornita direttamente dal fattore terra). Quindi una paralisi temporanea dei circuiti di fornitura di prodotti intermedi nell’insieme del sistema, solo parzialmente rimpiazzata da importazioni dall’estero (che comunque non sostengono l’occupazione nazionale), provoca inevitabilmente una caduta delle produzioni finali. Il lockdown non solo aggrava la recessione da domanda (minore spesa) delle famiglie e delle imprese sul mercato, ma può creare danni prolungati all’offerta, cioè alla capacità di sostenere reddito e occupazione nel medio periodo e – non ultima – sulla competitività delle nostre imprese. Attenzione: anche le massicce iniezioni di liquidità, di credito e di sostegno al reddito, su cui giustamente il governo sta impegnando enormi risorse finanziarie pubbliche per evitare i fallimenti, non bastano a scongiurare il pericolo di danni permanenti alla capacità produttiva del paese che derivano da rallentamenti e paralisi in larghe fasce produttive di beni e servizi. Come ricordava Enrico Giovannini su LaVoce.info del 7 aprile, un prolungato lockdown impatta inevitabilmente non solo sul capitale economico, ma anche sul capitale umano (il personale che lavora, progetta, innova) e sul capitale sociale (interazione tra soggetti sul luogo di lavoro e nella società), quindi sulla crescita effettiva e potenziale de paese. “Riaprire le aziende è un dovere civile” titolava un intervento (Sole del 1 aprile) dell’autorevole banchiere d’affari Giovanni Tamburi.
Con un prolungato lockdown dei settori, i pur necessari e urgenti strumenti di stabilizzazione dei redditi e di contrasto alla povertà (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, bonus finanziari, sconti fiscali) non bastano a evitare perdita di posti lavoro, riduzione di attività professionali, chiusura di aziende, perdita di quote di mercato a vantaggio di altri paesi, obsolescenza o vera e propria distruzione di capitale tecnologico.
Tutto ciò si aggiunge alla recessione del PIL provocata dal forte calo della domanda finale di consumi e investimenti (che includono la fondamentale manutenzione degli impianti), riflesso diretto del lockdown di settori importanti come commercio, trasporti, turismo, ristorazione, alberghi, attività sportive e ricreative. Una recessione domestica, di cui si sono già avuti pesanti segnali nei dati di produzione industriale diffusi da Confindustria lo scorso 3 aprile, è aggravata dall’impatto negativo della recessione sulle nostre esportazioni verso più della metà dell’economia mondiale.
Qualcosa si sta già muovendo, sia pure con lentezza e con grandi incertezze normative che frenano le decisioni e i programmi di spesa. Governo e parti sociali devono con urgenza predisporre un piano di ripresa dell’economia del paese – con l’apporto delle numerose e qualificate competenze tecniche e scientifiche – così da creare tutte le condizioni che consentano la ripresa della normale attività senza allentare controlli rigorosi che garantiscano il blocco graduale alla diffusione del contagio.
Non bastano ovviamente i controlli sull’organizzazione del lavoro in fabbrica e in ufficio, dal distanziamento fisico delle persone alla sanità ambientale. Serve una stretta collaborazione delle organizzazioni datoriali e sindacali, nonché delle amministrazioni pubbliche nazionali, regionale e locali. Basti pensare alle condizioni sanitarie di sicurezza nelle reti di trasporto pubblico da cui quotidianamente dovranno riprendere a transitare le persone verso/dal luogo di lavoro, anche prima che riaprano scuole e università e i luoghi di intrattenimento. Lo stesso vale per tutti i locali da cui inevitabilmente riprenderà a passare la popolazione in mobilità dentro e fuori dalle città. Qui si giocano i comportamenti responsabili di tutti, dalla classe dirigente di imprenditori, manager, consulenti, a dirigenti e quadri della pubblica amministrazione (Cassese docet!). Si gioca, forse per la prima volta in modo così marcato, la cultura civica della nostra società europea mediterranea.
(Sole 24Ore, 9 aprile)
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