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I costi indiretti delle riforme

di Franco Debenedetti

Le campagne elettorali, di solito, non godono di buona stampa. Quella in corso, però, qualche merito l’ha pur avuto: in tema Europa, i toni di chi proclamava o di voler uscire dall’euro o di volerne sfidare le regole, si sono attutiti; e in tema di promesse elettorali, è tutta una corsa a dimostrarne la sostenibilità. Se da un lato alcune idee – che l’uscita dall’euro sarebbe uno schianto, e che le riforme senza “coperture” sarebbero un’agonia – sembrano diventate opinioni acquisite, dall’altro ci sono equivoci che continuano a circolare nei discorsi pre-elettorali.

Uno di questi è di non considerare i costi indiretti delle riforme, cioè di quanto è necessario spendere per attuarle. A volte questi costi non sono facili da individuare e calcolare: se le burocrazie coinvolte dalla riforma sono più d’una – come sovente accade – se non si incomincia con riformare quelle, si dà luogo a sovrapposizioni ancor più costose. E’ il caso delle misure per il contrasto della povertà, un fenomeno che, per dimensione e diffusione, è uno scandalo in un Paese comparativamente “ricco” come il nostro. Merito quindi dei governi Renzi e Gentiloni avere varato il “Reddito di Inclusione” le cui prime erogazioni dovrebbero iniziare a febbraio e che il PD vorrebbe fosse poi esteso a tutti quanti sono sotto la soglia di povertà. Chi sono i poveri? Sono – recita la circolare Inps n. 172 del 22 novembre 2017 – coloro che tali risulteranno a una “valutazione multidimensionale del bisogno”, accertata da una “équipe multidisciplinare, composta da un operatore sociale identificato dal servizio sociale competente e da altri operatori, sempre afferenti alla rete dei servizi territoriali, a loro volta identificati dal servizio sociale a seconda dei bisogni del nucleo più rilevanti, emersi a seguito dell’analisi preliminare”. Perché stupirsi? Se il sistema di formazione professionale è disegnato per i formatori, e la scuola per gli insegnanti, perché dovrebbe essere diverso per poveri che si vorrebbe “includere”? Manco a dirlo, pure il “reddito di cittadinanza”, cavallo di battaglia del M5S, diverso per ratio, obbiettivo e destinatari, presenta lo stesso tipo di inconvenienti.

Questo non succede invece con il “minimo vitale” proposto dall’Istituto Bruno Leoni: infatti esso va automaticamente a chi presenta una dichiarazione IRPEF da cui risulti un reddito inferiore a una certa soglia. Il “minimo vitale” non è un intervento a sé, che debba essere effettutato dalla burocrazia che c’è: è invece la componente di un complessivo, ambizioso disegno, il “25 per tutti” (presentato e discusso sul Sole 24 Ore), nel quale la ridefinizione dei rapporti fiscali tra Stato e cittadini, e quindi dei compiti delle varie articolazioni dello Stato, è insieme mezzo e fine. Concretamente, mentre si istituisce il “minimo vitale” si fa anche piazza pulita di tutti gli strumenti esistenti, compresa l’Isee (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), e si recidono i legami spurii ( ci sono trattamenti assistenziali su cui intervengono MEF e Interni): alla fine restano le due burocrazie, con compiti distinti, il Fisco che esige le imposte ed eroga i sussidi, e l’INPS che fa l’assicuratore, seppure sui generis, cioè eroga prestazioni che abbiano base contributiva, senza più compiti assistenziali. (Per completezza si precisa che anche il “reddito di dignità” del centrodestra non dovrebbe dar luogo a esagerati costi amministrativi).

Tutte le riforme hanno un costo amministrativo più o meno nascosto, tutte tranne una: l‘eliminazione di funzioni esercitate o di servizi prestati dallo Stato. Quando lo Stato preleva e intermedia oltre il 50% di quanto il Paese produce, non si può dire che così si imbocca la strada dello Stato minimo: basterebbe che non diventasse “più massimo”. Come invece inesorabilmente succede. Che senso ha Fondere Ferrovie e Anas, costruire un gigante che controlli treni, autobus, strade, e magari metropolitane, se non quello di dargli maggiore potere, anche nei riguardi delle Autorità (indipendenti) regolatrici? Ed insieme quello di contrastare lo schema opposto, cioè privatizzare mettendo in concorrenza tra di loro una pluralità di gestori? Più in generale, il criterio per valutare i programmi elettorali è quali riducono e quali invece ulteriormente ampliano l’impronta dello Stato. “Di Maio abolisce il referendum sull’euro: […] migliaia di assunzioni pubbliche”: così Repubblica (22 Gennaio) titola il resoconto della presentazione del programma M5S a Pescara. Assunzioni per centri per l’impiego, assunzioni per selezionare i richiedenti asilo, assunzioni per velocizzare la giustizia. Che senso ha bruciare 400 leggi e assumere migliaia di dipendenti?

Se nella campagna elettorale i toni più estremi del sovranismo sembrano essere rientrati, permane il desiderio di recuperare il controllo della sovranità ergendo steccati (magari golden) ai confini nazionali. Si dice di volere l’innovazione tecnologica, ma ci si dimentica dell’innovazione politica. “I Governi centrali sono sempre meno in grado di fornire sviluppo e benessere” scrive Carlo Bastasin (Il Sole 24 Ore del 23 Gennaio): “l’innovazione politica nasce in città”. Ci sono un po’ dappertutto “sindaci che cambiano il modello delle politiche pubbliche” affidando “lo sviluppo commerciale di ampie aree pubbliche […] a un management autonomo secondo criteri privatistici [….]L’autorità centrale, il sovrano rimpianto, coincide con debito e consumi, mentre i centri urbani pensano a investire o integrare”.

Riformare senza razionalizzare, creare giganti artificiali, assumere migliaia di dipendenti pubblici, praticare un sovranismo interno che renda meno aperti i confini nazionali: sono ancora molti gli equivoci che circolano nella campagna elettorale.

Fonte: da IL SOLE 24 ORE, 01 febbraio 2018

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