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I cattivi maestri che affossano l’Italia

Al contrario di opinioni diffuse e ripetute il nostro costo del lavoro non è troppo alto, cambiare i contratti serve a poco, la nostra industria manifatturiera è competitiva a livello internazionale e i conti pubblici non sono il problema più urgente. Eppure è su questi argomenti che si concentrano il dibattito e i provvedimenti dei politici, mentre si dovrebbero affrontare le vere zavorre, peraltro stranote da anni.
Metti che da qualche tempo ti senti poco bene. Sei andato dal dottore che ti ha dato una cura che tu hai seguito. Il disturbo però non passa. Torni dal dottore e lui ti aumenta la dose della stessa medicina. Niente. Ci torni di nuovo e lui dice che la cura è giusta, ma bisogna aumentare ancora le dosi. Ma tu continui a star male, anzi, un po’ peggio. Non sarà il caso di cambiare dottore, e cercarne uno che trovi una cura più adatta? Ebbene, il malato Italia a fare questo ragionamento sembra che proprio non ci arrivi: continua a dar retta a dottori che prescrivono imperterriti la stessa medicina che finora non solo non ha curato il male, ma lo ha aggravato. Continuiamo a trafficare con le leggi sul lavoro, che finora hanno ottenuto zero effetti positivi (e parecchi negativi); a inseguire il mito del pareggio di bilancio, che in questa fase è necessario quanto un maglione a ferragosto; a litigare su una tassa sulla casa per abolire la quale si aumentano tutte le altre; a insistere sul cuneo fiscale – che in realtà è solo un paravento per ridurre il costo del lavoro – quando il nostro costo del lavoro è tra i più bassi tra i maggiori paesi europei: non solo le retribuzioni nette, come erroneamente si continua a ripetere, proprio il costo del lavoro per le imprese.
Conviene insistere su quest’ultimo punto, perché in molti continuano ad affermare che “in Italia le retribuzioni sono basse, ma il costo del lavoro è tra i più alti”. Di recente lo ha ripetuto anche una persona che di queste cose si dovrebbe intendere, cioè la ex ministra del Lavoro Elsa Fornero. E’ vero invece che la differenza tra lordo e netto è tra le più alte, seconda solo a quella della Francia. Ma questo dipende essenzialmente da due voci: il Tfr, istituto che non c’è negli altri paesi, e i contributi previdenziali, molto più elevati della media. Ma, attenzione: non si tratta di “tasse”, ma di accantonamenti che poi torneranno al lavoratore, sotto forma di liquidazione in contanti o di assegno pensionistico.
Il costo del lavoro dunque dovrebbe sparire dal novero dei problemi in agenda. Certo, si può sempre affermare che se fosse ancora più basso le nostre imprese sarebbero più competitive, ma , dopo tanti studi e ricerche, dovrebbe essere ormai un dato acquisito che puntare sulla riduzione del costo del lavoro per aumentare la competitività è una strategia suicida.
Altre affermazioni diventate ormai luoghi comuni sono che la competitività italiana è un disastro e che fare impresa in Italia è enormemente più difficile che altrove. Una delle classifiche più diffuse in proposito, Doing business, ritenuta di fonte autorevole perché elaborata da un istituto che fa capo alla Banca mondiale (l’Ifc), ci colloca al 69° posto su 189 Stati considerati, dopo Samoa, Fiji, Bielorussia e Santa Lucia e appena prima di Trinidad, Ghana e Kyrgyzistan. Secondo altre classifiche, come quella della Fondazione americana di destra Heritage, staremmo anche peggio.. La diffusione di queste classifiche è di solito salutata con titoloni su tutti i mass media, ma è difficile trovare chi ne faccia un esame critico. Queste graduatorie sono elaborate scegliendo determinati parametri e attribuendo loro punteggi, sommando i quali si arriva poi all’indice sintetico della posizione in classifica. Si tratta, in altre parole, di valutazioni con una forte componente di arbitrarietà. Ma queste valutazioni vanno d’accordo con i dati reali?
Marco Fortis è un economista che viene spesso accusato di dipingere la realtà in rosa. Un suo recente articolo cita però dati di fonte non meno autorevole della World Bank, con la differenza che si tratta di dati reali e non di valutazioni.
Il fatto, per esempio, che siamo uno dei soli cinque paesi del G20 ad avere una bilancia commerciale manifatturiera strutturalmente in attivo (gli altri sono Cina, Germania, Giappone e Corea); secondo dati del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, nel 2012 questo surplus è stato di 113 miliardi di dollari. Inoltre l’International Trade Centre, che fa capo sempre al Wto e all’Unctad, stila una classifica del commercio mondiale per macro-settori: sui 14 presi in esame l’Italia ha tre primi posti, tre secondi posti, un terzo posto e un sesto posto. “Complessivamente – scrive Fortis – l’Italia nel 2012 è risultata seconda nelle classifiche settoriali di competitività del commercio mondiale solo alla Germania. Gli 8 macro-settori in cui il nostro paese risulta ai vertici della competitività a livello internazionale hanno dato luogo lo scorso anno ad un surplus con l’estero di 103 miliardi di dollari”.
Va tutto bene, allora? Certo che no. Quei dati riguardano la sola industria manifatturiera (che vale circa un quarto del Pil), mentre la competitività complessiva del paese non va affatto così bene. Ma allora perché continuare ad accanirsi su ciò che è relativo a quello che già va bene, rimestando su argomenti come la flessibilità, i contratti e l’articolo 18, invece di occuparsi di quello che non funziona? Ripeterne l’elenco fa quasi venire la nausea: l’evasione fiscale, la giustizia, l’efficienza dell’amministrazione, lo snellimento della burocrazia, il settore dei servizi (dal credito alle assicurazioni alle professioni), la riqualificazione (non riduzione) della spesa pubblica, i costi della politica, la corruzione, le infrastrutture…
Le ricette che continuano a prescriverci sia le istituzioni europee che molti economisti nostrani, incuranti di averle finora sbagliate tutte, riguardano invece in primo luogo libertà di licenziamento (come se non si licenziasse abbastanza!) e tagli di spesa purchessia, con una vera ossessione per i decimali dei conti pubblici. Ma quelle nostre imprese che sono riuscite a recuperare i livelli pre-crisi di vendite all’estero (il 2013 dovrebbe chiudersi con un export vicino ai 400 miliardi, contro i 382 del 2008) sul mercato interno trovano lo sfacelo, con il crollo dei consumi e del reddito disponibile. Come osserva Fortis, anche le aziende più internazionalizzate hanno quasi sempre quello domestico come primo mercato, e nessuno può prosperare se crolla il suo sbocco di vendite più importante. Tagliare la spesa significa continuare ad aggravare la situazione, e destinare i risparmi a ridurre il costo del lavoro, invece che per stimolare la domanda, è aggiungere un altro errore. La produttività, del resto, è fatta anche di volumi: è ben difficile aumentarla quando il fatturato si riduce.
Che l’ossessione europea per l’austerità ci stia fortemente danneggiando è verissimo e combattere duramente a Bruxelles per cambiare le cose è indispensabile. Ma se anche le politiche interne non affrontano i veri problemi, allora davvero quel declino di cui spesso si parla a sproposito diventa inevitabile.

Fonte: Repubblica del 4 gennaio 2014

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