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i Big tornano a produrre in America e gli stati pagano la formazione

Non è ancora un fenomeno generalizzato e forse non lo diventerà. Ma non sono più nemmeno pochi casi isolati: dalla Ncr che ha riportato dall’Asia negli Stati Uniti la costruzione dei suoi bancomat, al gruppo chimico Dupont che ha scelto Charleston (South Carolina) per produrre kevlar, alla Caterpillar che sta costruendo nuovi stabilimenti in Texas e North Carolina per scavatrici e bulldozer, cresce il numero di imprese manifatturiere Usa che riducono il ricorso all’outsourcing in Cina o Messico.
Barack Obama, confortato dal miglioramento dei dati dell’occupazione, è stato lesto ad approfittare di questo fenomeno: mercoledì ospiterà alla Casa Bianca un «forum» durante il quale una dozzina di imprese che hanno già riportato in patria le loro produzioni racconteranno il loro caso. Il presidente discuterà poi con esponenti politici e leader dell’industria le cose da fare per recuperare i posti di lavoro a suo tempo «esportati».
L’iniziativa, è chiaro, fa parte della campagna elettorale di Obama, ma il rilancio manifatturiero degli Usa è un fenomeno reale, battezzato dagli economisti insourcing (o reshoring). In un recente studio il Boston Consulting Group pur lo spiega con la riduzione del gap rispetto ai costi di produzione della Cina, coi vantaggi che derivano dal produrre in un’area fisicamente vicina ai mercati di sbocco e anche con la vulnerabilità di catene logistiche troppo lunghe: il terremoto in Giappone e le inondazioni in Indocina hanno bloccato molte produzione anche negli Usa,rimasti a corto di semilavorati.
Ma c’è anche il ruolo dei governi, Pechino in testa, che spendono molto per attrarre investimenti stranieri. Ormai lo fanno sempre più anche gli Stati Usa che competono per attrarre nuovi stabilimenti con generosi sgravi fiscali e altri incentivi come la formazione professionale offerta gratuitamente alle aziende. Ci sono casi di successo come quello della North Carolina che spende molto e attrae molti investimenti, ma c’è anche chi si interroga sulla correttezza di una politica che trasferisce risorse da Stati in forte deficit ad aziende dai bilanci floridi per sostenere investimenti che spesso si rivelano solo temporanei. Un serio tema di riflessione per la politica Usa, se riesce a non farsi stordire dalle fanfare della campagna elettorale.

Fonte: Corriere della Sera del 9 gennaio 2012

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