• sabato , 23 Novembre 2024

Ho famiglia

“Chi ha avuto il privilegio di essere presente a una festa dei Forsyte… ha racimolato una prova di quella misteriosa concreta tenacia che rende la famiglia un’unità tanto formidabile della società… E’ stato ammesso a una visione delle radici indistinte del progresso sociale, ha compreso qualcosa della vita patriarcale, dello sciamare di moltitudini selvagge, dell’ascesa e declino delle nazioni” (John Galsworthy, “Il possidente”, 1906).
Non solo Carlo De Benedetti. In questo 2012 non finisce il mondo, ma sta certamente finendo, o meglio cambiando, il vecchio mondo dell’establishment italiano. Le grandi famiglie del capitalismo sono davanti a un salto generazionale che mette in discussione scelte, strategie, assetti consolidati, se non la loro stessa esistenza. E’ già successo con gli Agnelli o con i Falck in modo tragico e traumatico. Ora tocca in forme più comuni ai condottieri che negli anni Ottanta hanno portato l’ultimo turbine di distruzione creativa nella esausta fibra dell’economia italiana. Come avviene questo passaggio? E’ un vero trasferimento del potere o il carisma patriarcale finisce per prevalere? Favorisce l’apertura dell’economia e della società, mettendo in circolo il bene più prezioso e meglio custodito: la proprietà?
Nessuno ha seguito l’approccio radicale di Bill Gates il quale ha deciso che i figli debbono guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte. Non lascia loro nulla, a parte il cospicuo conto in banca e una fitta rete di relazioni, così come aveva fatto sua madre con lui; perché va bene il merito, ma ricominciare proprio da capo non esiste nemmeno nel modello americano. E nessuno ha imboccato il percorso illustrato dai teorici della public company, tanto spesso citati quanto poco ascoltati. Per lo più prevale quella che il sociologo francese Pierre Bourdieu chiamava “l’alchimia collettiva dello spirito familiare che assicura a ogni individuo i profitti simbolici corrispondenti al cumulo delle relazioni di tutti i membri del gruppo”.
Il codice napoleonico ha abolito il maggiorasco, dunque l’eredità non va per diritto al primogenito. E tuttavia c’è sempre un figlio (raramente una figlia) a primeggiare. In genere è il più adatto, quello che meglio ha saputo mostrare le sue doti di capo azienda e poi di futuro capo famiglia. Ma spesso emerge il più amato, il più simpatico, il più bello, quello (o quella) che riesce a fare il matrimonio giusto. Anche queste sono doti, perché saper piacere è un’arte e quasi sempre una premessa per il comando. Gianni Agnelli docet.
Nell’aprile scorso, la difficile scelta era toccata a Luciano Benetton, classe 1935. Il giovanotto zazzeruto e flamboyant che aveva ammassato una montagna di quattrini con i suoi maglioncini United colors, è ormai un nonno e l’azienda da lui creata insieme ai tre fratelli è irriconoscibile. L’abbigliamento rappresenta la parte minore di un gruppo che si è esteso a macchia d’olio: infrastrutture (autostrade e aeroporti), servizi (Autogrill), finanza, terre in America del sud e giornali (il Gazzettino). La diversificazione è opera di Gilberto, 71 anni, e da qui vengono i quattrini. Dunque, c’è una diarchia al vertice della sempre più numerosa famiglia. Il 24 aprile, Luciano decide di affidare la presidenza del settore tessile al figlio Alessandro che non è esattamente un virgulto nonostante l’aria di eterno ragazzo: a 48 anni arriva al timone dopo aver fatto gli studi tradizionali con tanto di master a Harvard ed essersi sperimentato in varie attività, tra le quali la finanza. Alessandro è il secondogenito del primo matrimonio di Luciano. E’ stato a lungo lo scapolo d’oro più bramato (stando ai giornali) poi ha sposato Deborah Compagnoni la migliore campionessa italiana di sci. Sportivissimi, piacenti, alla moda, coccolati dai media. Luciano rivede in Alessandro se stesso negli anni ruggenti. Il giovin signore manterrà le promesse? Sulla carta sembra destinato a prendere le redini della tribù. Quando Gilberto vorrà lasciarle. La transizione, a Ponzano Veneto, è solo cominciata. D’altra parte, quella parte impalpabile del dominio che dipende dalla personalità, dall’influenza, dalla conoscenza dei meccanismi più arcani non si trasmette con una marca da bollo.
Per i De Benedetti, in apparenza non ci sono incognite. Nessuno ha mai messo in discussione Rodolfo. Primogenito, nasce a Torino nel 1961 dal primo matrimonio dell’Ingegnere con Mita Crosetti. Laureato a Ginevra (la Svizzera è la seconda patria per la famiglia fin dalle leggi razziali), si fa le ossa nelle banche d’affari a New York. Anche lui con un matrimonio glamour, ma di altro genere: impalma Emmanuelle de Villepin, parente di Dominique, ex primo ministro francese. Si sono conosciuti a Ginevra ma lei allora era fidanzata con l’attore Christopher Lambert. Scrittrice, si è esposta nella vita pubblica per la prima volta l’anno scorso come sostenitrice accesa di Giuliano Pisapia al comune di Milano. Rodolfo, liberista d’antan, vorrebbe più mercato in Italia. E molti vedono la sua influenza culturale dietro l’ingresso alla Repubblica di penne liberali come Alessandro Penati, Alberto Bisin o Alessandro De Nicola.
Il padre lo colloca ai vertici del gruppo nel 1989 quando i fasti sono finiti: occorre una nuova strategia e soprattutto ricostruire la cassa prosciugata dalla sconfitta della scalata alla finanziaria belga Sgb un anno prima. Olivetti, il gioiello del reame viene destrutturato. Dai computer passa ai telefonini finché non diventa una scatola finanziaria. Poi la new economy lascia il posto ai servizi: energia, sanità, giornali. L’Espresso resta saldamente sotto il controllo dell’Ingegnere. E Rodolfo se ne terrà lontano. Il fratello Marco, sposato alla conduttrice televisiva Paola Ferrari, arriva al vertice della Tim, oggi è il rappresentante italiano del fondo Carlyle. Il terzogenito Edoardo fa il cardiologo in Svizzera e recentemente è entrato nel consiglio di amministrazione di Kos, il ramo sanitario di famiglia.
Lunedì 29 ottobre, Carlo annuncia che lascerà le sue quote ai figli a titolo gratuito. “Un atto di generosità”, dice. “Rodolfo è una sicurezza”. Quanto a lui non entra in politica, farà “l’editore puro”. Perché la presidenza dell’Espresso non la lascia, quella no. I tre figli avranno il 96 per cento dell’accomandita per azioni che controlla Cir, Cofide, Sogefi e il gruppo editoriale. Un 4 per cento è nelle mani dell’Ingegnere. “Non andrò ai giardinetti”, dice a Fabrizio Forquet del Sole 24 Ore. Anzi, ora si sente più libero di spaziare, influire, lanciare idee e provocazioni. Una terza o forse quarta vita, per l’inossidabile condottiero.
La parabola del figliolo destinato s’invera in molti casi. Come per il petroliere Riccardo Garrone che ha affidato al primogenito Edoardo la presidenza della Erg e al secondogenito Alessandro (ecologista per convinzione) la gestione. Steno Marcegaglia, padre padrone della sua azienda siderurgica, ha scelto Antonio, lasciando alla figlia Emma una carriera più politica, prima in Confindustria dove è salita fino alla presidenza, poi chissà, forse in Parlamento. Carlo Pesenti, leader della quarta generazione nella dinastia Italcementi, ha preso dal padre Giampiero il bastone del comando e si è sentito rimesso in discussione dal fondo di investimenti Hermes: “Non è chiaro se l’attuale amministratore delegato sia stato selezionato e mantenuto nel tempo sulla base dei meriti”. E’ il cruciale dilemma che si pone per l’intero capitalismo familiare e costringe il patriarca, volente o nolente, a restare il supremo garante e, in ultima istanza a tenere lo scettro. Leonardo Del Vecchio lo sa bene e ha scelto di conseguenza. Quando lui non ci sarà più, Claudio, ormai cinquantenne, diventerà presidente. Ma Luxottica verrà amministrata da manager professionisti. La separazione tra proprietà e gestione risponde a una necessità per un gruppo ormai multinazionale. E a una convinzione del fondatore.
La presenza del pater familias si fa ingombrante e scoppiano conflitti. E’ successo persino agli appartati signori del cioccolato, i Ferrero di Alba. Michele, classe 1925, aveva incoronato i figli Pietro (morto lo scorso anno in Sudafrica) e Giovanni nel 1997, ma regnavano, non comandavano. Lo si è visto nel 2009: i signori della Nutella ebbero l’occasione di compiere il grande balzo, conquistando Cadbury, il campione britannico delle barrette di cioccolato, ma il patriarca sfidò i figli e disse no.
Altro che successione naturale. Un contrasto rovente è in corso anche in casa Merloni. Vittorio, 79 anni, vecchiaia difficile per ragioni di salute, ha distribuito le quote di controllo della Indesit, prima negli elettrodomestici. Dei quattro figli, la primogenita Maria Paola, i gemelli Andrea e Aristide e la più giovane Antonella, sono i maschi a gestire gli affari. Andrea, 46 anni è il presidente, ora scade il suo mandato e Aristide chiede una svolta per l’azienda duramente colpita dalla crisi. L’idea è di convolare a nozze con un gigante mondiale, l’americana Whirlpool o la tedesca Bosch. E anche lo zio Francesco, 87 anni, fratello maggiore di Vittorio, è d’accordo per mettere al sicuro un gruppo che dalle Marche è arrivato in Inghilterra, ma stenta a sfondare nei mercati che crescono, la Cina e l’Asia.
Se il padre padrone diventa tiranno succede come ai Caprotti. Bernardo prima nomina il primogenito Giuseppe amministratore delegato, poi lo allontana. Nel 2005 il fondatore intesta ai tre figli, in parti uguali, il 92 per cento dei supermercati, tenendo per sé solo l’8 per cento di Esselunga. Poi nel febbraio 2011, cambia idea e con un colpo di mano si riprende la proprietà di tutti i supermercati. Gli eredi fanno ricorso a un lodo arbitrale che dà loro torto: Bernardo è il “dominus” e l’unico legittimo proprietario. Adesso che ha compiuto 86 anni è tornato nel pieno possesso della roba. Quella che, invece, non resta più a don Salvatore.
Ligresti aveva chiuso la proprietà in una serie di società domiciliate per lo più in paradisi fiscali, riconducibili alla sua famiglia e legate da un patto di sindacato. Dei tre figli, Giulia Maria, Gioacchino Paolo e Jonella, quest’ultima è la preferita. A soli 23 anni, nel 1990, interrompe gli studi alla Bocconi per entrare nel consiglio di amministrazione della Premafin finanziaria, la holding di famiglia. Da allora è tutta un’ascesa fin quando nel 2007 viene accolta, prima donna in assoluto, nel salotto di Mediobanca. Nello stesso anno, le viene conferita la laurea honoris causa dall’Università di Torino, subito revocata dal ministero per “insussistenza”. E’ un segno. La crisi economica s’abbatte sul più grande costruttore milanese e sulla sua compagnia di assicurazioni la Fondiaria Sai. Il crollo è cronaca di questi mesi. Don Salvatore ha tentato di proteggere la famiglia chiedendo una buona uscita di 45 milioni mentre Mediobanca definiva con Unipol un salvataggio salvifico per la stessa banca d’affari. Ci sono di mezzo gli avvocati e i tribunali, chissà cosa accadrà ancora.
Esistono anche transizioni mai nate, come quella dei Romiti. Uscito dalla Fiat, Cesare aveva pensato di creare un gruppo familiare, ma non è andata come sperava nessuna iniziativa dove erano coinvolti i figli: Maurizio nella finanza e nell’editoria con Hdp e Rcs, Piergiorgio con Impregilo. E ci sono le transizioni complesse per ragioni legate alla natura degli affari e alla struttura della famiglia.
E’ il caso di Berlusconi. Sette le holding di famiglia, il Cavaliere ne controlla quattro (Prima, Seconda, Terza e Ottava), i cinque figli (Pier Silvio, Marina, Barbara, Eleonora e Luigi) sono azionisti delle restanti tre. Marina è nello stesso tempo la primogenita e la scudiera del padre. Presiede Mondadori e scende in campo ogni volta che serve un sostegno. Pier Silvio è a Mediaset sotto lo sguardo attento di Fedele Confalonieri. Barbara, nata dalle nozze con Veronica Lario, è una presenza forte nel Milan. Eleonora sta per dare alla luce il settimo nipote. Il più giovane, Luigi, si fa le ossa in finanza. Le tensioni tra i due rami, acuitesi con il lungo e litigioso divorzio, sembrano stemperarsi. La Berlusconi spa sembra ben strutturata. Ma Silvio resterebbe in sella persino con il più cieco dei blind trust americani.
“Anche se mi mettono nel più buio scantinato, sarò sempre io a comandare”, disse Enrico Cuccia quando Romano Prodi lo voleva mandare in pensione. Quanto il potere sia semplice e arcano nello stesso tempo, lo si capisce proprio nel momento in cui deve essere trasmesso. E poche storie hanno raggiunto le tragiche vette e le paludose valli della famiglia reale del capitalismo italiano.
Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat, è stato costretto a saltare una generazione dalla morte del figlio Edoardo in un incidente aereo. Ma il vecchio ufficiale di cavalleria dubitava di quel dandy, amante dello sport e della bella vita. Infatti, aveva messo la Fiat in mano a Vittorio Valletta e puntava le sue carte sul giovane Gianni. Passerà un quarto di secolo prima che l’erede designato prenda il potere assoluto. Anche per lui c’è un Edoardo, il figlio, che segue altri sentieri, dolorosi, drammatici, fino al suicidio. Si parla di Giovanni Alberto, primogenito di Umberto; l’Avvocato lascia dire ma non decide finché il giovane muore di cancro. E Gianni sceglie John Elkann. Vorrebbe adottarlo per dargli il suo cognome. Umberto si oppone. Lo porta nell’accomandita di famiglia. Umberto vuol mettere il figlio Andrea. Perde ancora una volta. La morte, a distanza di un anno, di Gianni e del fratello, lascia Jaki al timone, acerbo e inesperto. Si fa guidare da Gianluigi Gabetti e da Franzo Grande Stevens, vecchie volpi e grandi navigatori. Con un’ardita operazione che ancora oggi attraversa le aule del tribunale di Torino, Gabetti garantisce il comando del gruppo attraverso la Exor. Ad Andrea va la Juventus sulle orme del nonno e del padre. Ma l’eredità scotta: Margherita, primogenita di Gianni è ricorsa in tribunale contro John, il figlio di primo letto, per difendere la prole avuta dal secondo matrimonio. Quando manca il carisma tutto si sfalda.
La legge italiana è chiara: i parenti più stretti non possono essere “dimenticati”, nemmeno quando si sono comportati male. Nel Regno Unito non esiste un “diritto del legittimario”, altri paesi prevedono quote minori (Francia) o, come la Svezia, termini rapidissimi per far valere i diritti sull’eredità (sei mesi). In Italia tutti si riempiono la bocca della parola ricambio, ma questa sarebbe la liberalizzazione delle liberalizzazioni e provocherebbe uno choc, mettendo in circolo la proprietà come mai accaduto prima. Ma che cosa succede se “l’alchimia collettiva” vale più del diritto?
Lo storico francese Jacques Le Goff direbbe che poco è cambiato nella sostanza dal tempo dei re taumaturghi, i sovrani francesi e inglesi che fino al XVIII secolo si diceva potessero guarire gli scrofolosi e legittimare così il proprio dominio. La malattia oggi ha una forma meno ripugnante, anche se non meno pervasiva.
Carlo De Benedetti che lascia tutto tranne i giornali, rivela dove sta il nocciolo duro. Oltre il denaro, oltre l’investitura, al di sopra del diritto scritto e consuetudinario, contano la personalità di chi esercita il potere e il controllo dei meccanismi relazionali. Essere al centro della ragnatela, ecco cosa importa davvero. Influenzare l’opinione pubblica, spingere o deviare la collera del popolo e le scelte dell’élite. E’ sempre stato importante, dalla polis greca alla rivoluzione francese, passando per Roma. Nella società di massa è il cuore del comando. Ricevere una telefonata di protesta da un ministro o da un presidente. Far cadere un governo o decapitare un partito, una banca, una grande impresa. Decidere quel che gli altri debbono decidere. Parigi val bene una messa, disse Enrico di Navarra, da ugonotto si fece cattolico e cominciò anche lui a imporre le mani.

Fonte: Il Foglio del 5 novembre 2012

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