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Gli stati generali s’hanno da fare. Ecco un’agenda informativa

Entro il 15 aprile l’Italia dovrà presentare a Bruxelles due documenti: il Programma di stabilità e il Programma nazionale di riforma. Il governo sta lavorando alla predisposizione di questo secondo documento che in bozza è già stato presentato il 5 novembre in Consiglio dei ministri e che per aprile dovrà avere una veste definitiva. Questo significa essenzialmente, secondo le procedure del semestre europeo, dotarlo di numeri, cioè di una quantificazione delle risorse, dei risultati attesi, dell’impatto sull’economia di tutte le azioni previste per sostenere la crescita, ovviamente nel rispetto dei vincoli finanziari posti dal Programma di stabilità. Ma questo documento dovrà rappresentare anche qualcos’altro. In questo documento si dovrà condensare il programma d’impulso alla crescita che il governo ha in discussione e che deve rispondere a una fase delicatissima non tanto e non solo dell’economia italiana, quanto dell’economia europea per i suoi squilibri interni e nei suoi rapporti con l’economia mondiale. I problemi dell’Italia possono essere affrontati solo se guardiamo a questo più ampio contesto. La crisi del nord Africa e del medio oriente, i suoi contraccolpi sul prezzo del petrolio e le generali implicazioni dell’aumento dei prezzi dei beni agricoli, uniti alle politiche monetarie espansive dalle due parti dell’Atlantico inducono a parlare di stagflazione, cioè d’inflazione e stagnazione delle economie.
In questo quadro, è del tutto inutile discutere se il futuro è più o meno roseo, poiché molto dipenderà da ciò che accadrà fuori dell’Italia. Ciò che importa è che l’Italia trovi una forte condivisione interna su un programma di azione che non dovrà essere solo di emergenza con un occhio al breve periodo, ma che deve dare la “scossa” all’economia italiana proprio perché affronta nodi strutturali con uno sguardo al lungo periodo. Solo la chiarezza delle prospettive e delle scelte coerenti può mettere in moto le risorse finanziarie e reali che esistono ma che oggi sono o ferme o incerte sul da farsi. La proposta di riunire quelli che il governo ha chiamato gli Stati generali dell’economia per la definizione e la condivisione di queste scelte ha questa finalità. Ma cosa si deve intendere per Stati generali dell’economia? In primo luogo sarebbe bene dire quello che non devono essere. Non devono essere una riunione delle corporazioni italiane, cioè il tavolo in cui le rappresentanze di una struttura ancora troppo corporativa dell’economia italiana presentano le proprie richieste, più o meno settoriali e asfitticamente di breve periodo.
Gli Stati generali servono a riunire le intelligenze, le conoscenze e le esperienze di tutte le articolazioni economiche della società italiana, ed anche di quella politica, che hanno capito che tutti gli interessi particolari potranno trovare una tutela efficace nell’ambito di una economia più libera, con più concorrenza, e quindi con più crescita. L’inflazione importata si compensa con l’effetto della maggiore concorrenza sui prezzi e la stagnazione si combatte con il dinamismo e l’innovazione conseguenti anche alle liberalizzazioni. Se questa deve essere l’ambizione, gli Stati generali dell’economia si dovrebbero riunire intorno a pochi temi di fondo, essenzialmente a quelli che nella bozza di Programma nazionale di riforma sono stati chiamati, riprendendo il linguaggio della strategia “Europa 2020”, i colli di bottiglia dell’economia italiana. Si tratta di colli di bottiglia molto interconnessi tra di loro. Ricordo i principali: la questione fiscale, la riforma del welfare e del mercato del lavoro, la liberalizzazione dei mercati, soprattutto del mercato dei servizi e delle professioni, e la connessa azione di riforma della Pubblica amministrazione come strumenti congiunti di aumento della produttività ed efficienza del sistema, ricerca e innovazione. Questi colli di bottiglia li troviamo nella loro interconnessione nella predisposizione del Piano per il sud, cioè nell’azione di aggressione alla questione meridionale e agli squilibri territoriali. Vediamo gli Stati generali dell’economia come un’azione di consultazione e lavoro pratico interno a questi nodi, che si svolga in continuità in un arco molto limitato di giorni, per confrontare e analizzare una molteplicità d’interventi, piccoli e grandi, coordinati e convergenti su ognuno di questi colli di bottiglia. Il fine è soprattutto andare alla ricerca della coerenza, nel suo significato non solo di compatibilità finanziaria reciproca ma di attenzione a evitare che il perseguimento di un obiettivo, o il superamento di un collo di bottiglia, scardini le premesse per il raggiungimento di un altro obiettivo.
Un obiettivo di confronto cruciale è quello di individuare e definire tutte le azioni normative e finanziarie che consentano di spostare il sistema di convenienze dall’investimento a breve all’investimento a lungo termine. Se, infatti, l’aumento della competitività dell’economia italiana richiede una forte azione d’investimento nelle infrastrutture materiali e soprattutto immateriali, il cui finanziamento non potrà basarsi sulla finanza pubblica, ciò implica che sia necessario attrarre investimenti a lungo termine dal settore privato, nazionale e internazionale. Questi Stati generali dovrebbero avere una caratteristica fortemente tecnica, ed essere, quindi, preparati in tal senso convocando le rappresentanze d’interessi sui singoli temi non nella loro veste di portatori di interessi particolari, ma come apportatori di conoscenze particolari utili alla definizione della coerenza dell’insieme. Quindi, un luogo di elaborazione e non di negoziazione corporativa di decisioni che spettano al governo e al Parlamento. Ma proprio perché fondati su un confronto tecnico essi assumerebbero la più alta rilevanza politica e democratica, perché la condivisione o meno delle scelte possibili avrebbe le caratteristiche della chiarezza delle posizioni.

Fonte: Il Foglio 8 marzo 2011

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