• martedì , 26 Novembre 2024

Gli Europentiti

Un’autocritica così, nessuno se l’aspettava: “Bisogna ammettere che abbiamo sbagliato”. E ancora: “I padri fondatori dell’euro sono stati troppo ambiziosi”. Non lo scrive uno dei tanti euroscettici che si fregano le mani, a destra come a sinistra: non è Antonio Martino né Giorgio La Malfa, per citare due politici ed economisti di scuola e collocazione diversa, l’uno seguace di Milton Friedman e l’altro allievo di Franco Modigliani. No, l’autodafé, pubblicato in prima pagina dal Sole 24 Ore sotto il titolo “Il re è nudo”, viene niente meno che da Guido Tabellini, rettore dell’Università Bocconi, economista apprezzato urbi et orbi, in corsa per il Tesoro nel governo dei tecnici guidato da Mario Monti. E se si spinge a tanto un luminare, misurato e moderato, come lui, allora davvero stiamo assistendo a un cambio di stagione, un ripensamento radicale che fa cadere anche il totem attorno al quale ha danzato la Seconda Repubblica.
Con la sinistra o con la destra al governo, con gli slanci federalisti di un Carlo Azeglio Ciampi o i mal di pancia euroscettici di Giulio Tremonti prima maniera, tra la prudenza pragmatica di Romano Prodi (che poi fece di necessità virtù) e i moniti di Antonio Fazio (che si piegò con lealtà alla scelta dell’intero paese), l’euro è stato il faro dell’Italia dal 1992, quando Guido Carli e Giulio Andreotti misero le loro firme sotto il trattato di Maastricht. Un’unione mistica, altro che monetaria; una missione salvifica: non un matrimonio d’interesse, ma il deus ex machina, il vincolo esterno che ci trascina volenti o nolenti nella modernità come scrisse proprio Carli. Eppure, si erano sbagliati. Helmut Kohl aveva rinunciato al marco per far ingoiare ai francesi la nuova Germania. François Mitterrand sperava di affidare alla Francia quel ruolo guida sull’Europa sfuggito al Gran Corso e al Gran Generale. Jacques Delors credeva di aver trovato una scorciatoia verso l’unione politica. Un gigantesco abbaglio, un equivoco storico. E adesso l’Economist, quasi incredulo si chiede: “E’ davvero la fine”?
L’uscita di Tabellini non è né estemporanea né isolata. Al contrario. Sul Corriere della Sera, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi chiedono una “rivoluzione per salvare l’euro e i 60 anni che abbiamo dedicato a costruire l’Europa”. Questa rivoluzione implica “un cambiamento dei trattati estendendo i poteri esecutivi della Ue alla politica di bilancio, non alle singole misure, ma ai conti pubblici aggregati: evoluzione del debito e saldi di bilancio”. Guido Rossi, grande avvocato fustigatore del malcostume mercatista, dalle colonne del Sole invia lirici accenti: “E’ tempo allora che i paesi debitori abbandonino la tirannica speculazione dei mercati e si rivolgano ai prestatori ufficiali. Non resta qui che una sola strada, cioè far diventare la Bce, privata dei poteri di indirizzo economico, il prestatore di ultima istanza che acquista i titoli dei debiti pubblici degli stati debitori sottraendoli alla speculazione e al default. Così avviene laddove esistono Banche centrali con quella funzione come in Inghilterra e negli Stati Uniti”. Già. Ma così non hanno mai voluto (e non vogliono ancora oggi) i tedeschi i quali hanno imposto il modello Bundesbank. Con una differenza: la Buba compra i titoli tedeschi, come ha fatto in modo consistente mercoledì quando il 35 per cento dei Bund sono rimasti inoptati; funzione interdetta alla Bce. Alla fine, “la costante tutela della Germania – sostiene Marcello De Cecco, storico della finanza – ha messo in questione l’indipendenza politica della Banca stessa”.
Insomma, non sono riforme tecniche da realizzare in corso d’opera. Si tratta di riscrivere i trattati, come chiede lo stesso Tabellini. Una operazione che ovviamente non si può fare in un batter d’occhio. Con il rischio che sia già troppo tardi. “C’è tempo fino a gennaio, poi l’euro va in frantumi”, vaticina Jacques Attali, un altro eurofilo pentito. Fu lui che, in quanto consigliere di Mitterrand, spinse il presidente francese a imboccare la strada dell’unificazione monetaria che divideva il paese e le forze politiche in modo verticale. Pronti alla difesa del franco e della sovranità nazionale, non c’erano solo Jean-Marie Le Pen all’estrema destra e il Partito comunista all’estrema sinistra, ma una buona metà dei gollisti e almeno un terzo degli stessi socialisti. Del resto, uno dei suoi leader più coccolati da Mitterrand, Laurent Fabius, s’è poi messo a capo della fazione euroscettica. Attali non vuole uscire dall’euro, ma chiede anch’egli di superare i limiti imposti a Maastricht, il principale dei quali è l’autonomia delle politiche fiscali, a favore di un federalismo budgetario che non trova d’accordo i tedeschi (la Corte costituzionale ha sentenziato che ogni decisione su come utilizzare il denaro dei contribuenti deve passare per la commissione Bilancio del Bundestag), ma nemmeno la maggior parte dei francesi.
Un ruolo diverso della Bce, ecco il nuovo mantra. Lo recita un economista di sinistra come Jean-Paul Fitoussi, lo rilancia Carlo De Benedetti, già tessera numero uno del Partito democratico, il quale non solo vuole “la trasformazione della Bce in una vera Banca centrale sul modello della Fed”, ma auspica l’adozione di Eurobond. E arriva a scrivere tranchant: “Non si può far politica dando ascolto solo agli umori delle birrerie. L’economia tedesca sta traendo un enorme vantaggio dalla moneta unica”. Ecco un altro argomento finora lasciato agli euroscettici. Invece, si sta facendo largo con forza, anche grazie a una serie di studi, una vera letteratura economica sugli “squilibri fondamentali” all’interno della zona euro ricca di conseguenze politiche.
L’Ubs, l’Unione delle banche svizzere, ha appena elaborato un rapporto sul tema, già sviluppato lo scorso anno in un paper di alta caratura scientifica da Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa. La moneta unica era concepita come il primo passo verso una integrazione progressiva fino alla meta finale (almeno per i federalisti). Che cosa è successo? Una tabella della Banca d’Italia (nella Relazione generale 2010), mostra le bilance dei pagamenti dei paesi che compongono Eurolandia e la posizione netta sull’estero, tra il 1999 e il 2009. La bilancia della Germania è passata da meno 1,3 punti a più 5. Quella della Spagna da
-2,9 a -5,4. La Grecia da -5,5 a -11,3. Il Portogallo da -8,5 a -9,3. L’Italia che era in leggero attivo nel 1999 adesso ha un passivo di tre punti, esattamente come la Francia. Il dibattito economico ha sottolineato il ruolo di questi squilibri nella crisi mondiale del 2008 (la Cina sempre in surplus e gli Usa sempre in deficit, alimentando così un circuito perverso). Ebbene contano anche nella crisi odierna all’interno della Ue. Questo contraddice lo studio di Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi del 2002 secondo il quale nel periodo immediatamente successivo all’euro c’è stato un processo di convergenza a tutti i livelli a cominciare dalla produttività, con un flusso di capitali dai paesi in attivo a quelli in passivo. Cosa ha rimesso in discussione le buone promesse dell’unione?
L’euro è nato più forte della lira e più debole del marco. Se oggi la Germania tornasse indietro, come auspica la maggioranza dei tedeschi, stando ai sondaggi, la valuta nazionale varrebbe almeno il 20 per cento più della parità sulla quale è basato l’euro. In altri termini, starebbe attorno alle 2.200 lire (ricordiamo che l’euro è pari a 1.936,27 lire). La svalutazione ha avvantaggiato le esportazioni tedesche nei paesi dell’Eurolandia. Il primo gennaio 2002 quando i primi biglietti europei sono usciti dai bancomat, un euro valeva 0,89 dollari. La Bce ha tenuto i tassi più alti rispetto alla Fed e nel 2004 l’euro era salito a 1,36 (il 15 luglio 2008 raggiunse 1,60). La bilancia estera della Germania è tornata in attivo e la successiva rivalutazione ha favorito i Konzern germanici (da Volkswagen a Siemens, da Krupp a Daimler) in giro a far shopping in Asia, gigantesca area del dollaro. Là dove le imprese italiane, al contrario, non comprano aziende, ma esportano manufatti.
C’è anche un altro meccanismo perverso, squisitamente finanziario. Prima dell’euro, quando un’azienda doveva fare un investimento in Italia, si copriva dal rischio di cambio stipulando un contratto pronti contro termine in valuta locale. Per esempio vendeva titoli in dollari e li comprava in lire. Oggi la valuta è sempre la stessa, ma non i titoli. Le operazioni sono in euro, però vengono acquistati solo titoli con la tripla A. I tedeschi rispondono che non è una colpa avere un bilancio pubblico a posto, aziende produttive e marchi solidi all’estero. Certo che no. Non tutto è in equilibrio perfetto entro un’unica area monetaria, sottolinea l’economista americano Barry Eichengreen. Ma ci sono “squilibri buoni” come quelli determinati dalla differenza di produttività, che si trasformano in meno che non si dica in “squilibri cattivi”. Riaffiora, così, non solo un contrasto d’interessi e di politiche, ma anche un conflitto di modelli economico-sociali dietro i quali si nascondono differenze culturali. Il Lebensraum, lo spazio vitale della nuova Germania unificata, cioè la Mitteleuropa più l’Olanda, diventa sempre più ostile ai paesi mediterranei e atlantici, ma s’allontana anche dal Reno. La Gran Bretagna, del resto, è rimasta fuori per incompatibilità di modelli non per atavico isolazionismo.
Nel racconto dei dieci anni che hanno portato all’unione monetaria, condotto con il ritmo di un thriller, Gabriel Milesi mostra una partita a tre, giocata senza esclusione di colpi tra Germania e Francia, sospettose nei confronti l’una dell’altra. In mezzo l’Italia, commissariata dalla Bundesbank, con Parigi (alla cui guida c’erano Lionel Jospin primo ministro, Dominique Strauss-Kahn alle Finanze e Jacques Chirac all’Eliseo) pronta a far da sponda a Roma, ma come impaurita dall’inflessibile Theo Waigel, ministro delle Finanze tedesco, quello del Dreikommanul (tre per cento virgola zero). Era il 1998. Da allora non è cambiato, nel fondo, niente o quasi. Il vertice di giovedì tra Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Mario Monti dimostra le divergenze di fondo tra i grandi paesi dell’Eurolandia.
Riaggiustare l’unione monetaria, dunque, richiede mutamenti strutturali. Anche perché ci sono molte cose alle quali i padri fondatori non avevano pensato. Quei visionari inguaribilmente ottimisti non credevano che potesse entrare in crisi l’area euro nel suo insieme, il centro non solo la periferia; quindi, hanno lasciato la moneta senza un sostegno comune contro un pericolo comune; hanno scelto dei criteri come il tetto del 3 per cento al disavanzo pubblico sul prodotto lordo e del 60 per cento al debito, in modo sostanzialmente arbitrario, come spiega David Marsh nella sua storia dell’euro.
Nel 2003 la Germania e la Francia non rispettarono il criterio base, cioè quello del disavanzo. E non successe nulla. Si aprì un dibattito sulla riforma del patto di stabilità, “un patto stupido” lo chiamò Prodi che era presidente della Commissione europea. Mario Monti propose di non tener conto delle spese per investimenti e degli effetti della congiuntura. Tante parole, nessuna decisione. Con la crisi dei subprime e il crac di Lehman Brothers, è caduto anche l’ultimo vestito dell’imperatore. Secondo De Cecco, “l’errore capitale avviene nel 2008, quando la Germania scarta un intervento coordinato contro la crisi finanziaria”. A quel punto, liberi tutti e i mercati cominciano la caccia partendo dalle prede più deboli. “Il mix deleterio di ortodossia e mancanza di coordinamento – aggiunge il professore – ha favorito la speculazione. E la Grecia è servita da detonatore, smentendo l’illusione che la necessità avrebbe creato l’istituzione”.
Il gallo ha cantato già due volte e l’euro non ha né padre né madre. Al terzo canto, sarà già in agonia. C’è da attendersi un intervento di Giuliano Amato, magari domani sul Sole. O qualche appello buonista di Carlo Azeglio Ciampi. Prodi ha sposato la proposta di Alberto Quadrio Curzio di emettere Eurobond dedicati allo sviluppo, un modo elegante per lanciare la palla in avanti. Ma c’è anche chi, da europeista convinto, sta cominciando a spingersi molto in là, come Paolo Savona. A lungo braccio destro di Guido Carli, fin dagli anni in Banca d’Italia, ministro nel governo Ciampi, esperto di questioni monetarie internazionali, ha condiviso il progetto unionista, ma anche gli appelli inascoltati a costruire un sistema internazionale in cui il nuovo euro e il vecchio dollaro, lo yen, il renminbi o la sterlina, potessero trovare un punto di equilibrio comune. Da tempo critica il modello tedesco al quale la Bce si è uniformata. E di fronte all’irrompere della crisi, ha cominciato a pensare l’impensabile: un piano B per far uscire l’Italia dalla trappola. Ciò vuol dire abbandonare l’euro? Vuol dire creare le condizioni per un contrattacco preventivo. E’ stato un errore non avere preparato già una exit strategy. “Adesso è arrivato il momento; il mercato è convinto che l’Europa non ci salverà, dunque dobbiamo salvarci da soli”.
Un’ondata nazionalista scuote gli eurofili d’antan? O è una reazione emotiva a una crisi nient’affatto passeggera? Né l’uno né l’altro. L’Italia si è gettata nell’avventura con entusiasmo, ma anche con troppe illusioni. L’euro era stato definito un ombrello, un porto sicuro di fronte alle tempeste. Se ne decantavano i vantaggi, glissando sul contesto mondiale. Doveva garantire denaro a basso costo, fondamentale per un paese affamato di capitali, grazie ai quali avremmo avuto un debito pubblico inferiore e maggiori investimenti. Nell’ultimo decennio abbiamo vissuto un’abbondanza di denaro liquido, grazie alla politica monetaria espansiva della Fed che ha accompagnato una spinta di mercato ad abbassare i tassi reali a lungo termine. Di fronte a queste forze esogene, davvero avremmo avuto tassi elevati in un’Europa senza euro? Sembra improbabile. La moneta unica doveva assicurare una bassa inflazione, salvo la fiammata dopo il changeover. Ma fino al 2007 non s’è verificata nessuna spinta dal lato dei costi né interna (grazie ai bassi salari) né esterna (grazie alla riduzione dei beni industriali nei paesi in via di sviluppo). Quando le materie prime (prima grano, poi petrolio) sono balzate in alto, l’euro non ha fatto da scudo. L’anno successivo, la crisi finanziaria si è manifestata in Europa con la stessa virulenza. Il Fondo monetario ci dice che gli Usa nel 2009 hanno perso il 3,5 per cento contro il 4,3 dell’area euro, e sono cresciuti del 3,1 l’anno successivo, quello della ripresina, contro l’1,8 dell’Eurolandia. Quest’anno l’America rallenta, ma l’Europa non accelera; non ce la fa. Insomma, nessun vantaggio in termini di crescita, il dato medio dello scorso decennio lo conferma. Infine il debito che resta nazionale, anche se denominato in una valuta sovranazionale, crea una contraddizione di fondo senza un assetto federale tipo Stati Uniti.
Torniamo, dunque, alle vecchie monete? O magari introduciamo due euro, come propone Luigi Zingales? All’Italia non conviene. Nemmeno alla Francia che si troverebbe schiacciata da un euro-marco. Ma persino i tedeschi avrebbero più costi che vantaggi. Siamo in una trappola che l’economia o la politica non riescono a spiegare. Come sempre quando la ragione si blocca, bisogna ricorrere alla poesia. E viene in mente quel verso degli “Amori” in cui Ovidio si rivolge a Syria sospirando: “E così io non posso vivere né con te né senza di te”.

Fonte: Il Foglio del 26 novembre 2011

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