• giovedì , 21 Novembre 2024

Giovannini: “Diamo i numeri, ma tutti insieme”

Il lancio è previsto in Corea, a fine ottobre. La missione è ambiziosa: cambiare la percezione e la rappresentazione delle realtà, dare nuovi strumenti alla politica per prendere le sue decisioni, disboscare il mondo dalla falsa conoscenza. Ma non si tratta della partenza di una sonda su Marte, bensì del lancio di una piattaforma globale che si chiama Wikiprogress: neologismo che unisce l’idea di luogo aperto ad apporti dall’esterno e a disposizione di tutti, come appunto la famosa enciclopedia on line Wikipedia, e insieme l’idea di evoluzione verso un mondo migliore.
I protagonisti sono una categoria di studiosi finora rimasti nell’ombra, gli statistici. L’occasione, il prossimo Forum mondiale dell’Ocse. La materia sono i numeri. «L’offerta di dati è esplosa, siamo inondati da cifre, capire quali sono buone e quali no è difficilissimo», dice Enrico Giovannini, neopresidente dell’Istat e fino a poco fa capo del servizio statistiche dell’Ocse, a Parigi, il primo a lanciare l’idea del Wikiprogress: «Come ha fatto notare il sociologo Ilvo Diamanti, vige lo schema “Porta a Porta”: politici di destra e di sinistra che si contraddicono sui numeri, finché il conduttore dice: guardiamo i dati. E chi chiamano? Non lo statistico, ma il sondaggista. I dati veri? Spariti». Giovannini è anche l’uomo che ha convinto Sarkozy a dar vita alla famosa commissione Stiglitz per trovare una misura del benessere di un paese. Due eventi che si annunciano rivoluzionari, che hanno in comune un approccio non solo tecnico, ma anche filosofico alla realtà, tenuti insieme da un’unica spinta: la consapevolezza che non c’è più una misura unica che comprende tutto. Un numero solo (tipo il Pil) non racconta abbastanza della realtà.
Fino a ieri gli statistici facevano il back-office per gli economisti, ora vogliono la ribalta. Come lo spiega, professor Giovannini?
«Negli anni Novanta il lavoro più sexy era lo sviluppatore di software, ora è lo statistico: lo ha detto il capo economista di Google. Battute a parte, il Web ha cambiato tutto, anche il nostro mondo. E ha dato corpo a un movimento invisibile, a una rete di organizzazioni che tentavano di fare tutte la stessa cosa».
Quale?
«Ricorda “Incontri ravvicinati del terzo tipo”? Gli alieni che mettono nella testa di una serie di persone lo stesso messaggio e tutti vanno verso la montagna dove ci sarà l’incontro con gli esseri spaziali? Abbiamo scoperto che da Bogotà al Sudafrica, dall’Australia alla Thailandia, c’è gente che si muove nella stessa direzione: primo, andare al di là della misura del reddito come indice del successo di una comunità; secondo, farlo insieme. Abbiamo contato 400 iniziative di questo genere, da Como vamos in Colombia alla Società armoniosa cinese. Se si riconosce che non c’è una misura unica che comprende tutto, bisogna mettersi intorno a un tavolo e definire gli indicatori chiave che ci rappresentano. Le crisi ambientali, economiche, del cibo, della finanza, hanno fatto capire a tutti che non potevamo andare avanti così. Come ha detto Sarkozy: le costituzioni riconoscono i diritti fondamentali, ma altri diritti sono diventati importanti, e per dargli spazio dobbiamo avere le misure giuste, altrimenti facciamo politiche sbagliate».
Il Pil allora è un “Pirl”, come ha ironizzato Giorgio Ruffolo?
«Negli anni Cinquanta e Sessanta la gara era tra chi produceva di più. Oggi “grande” non vuol dire necessariamente “buono”. Per esempio, negli Usa il reddito mediano – quello che divide a metà la popolazione – è inferiore a quello degli anni Novanta: in altre parole gli americani stanno peggio, benché il Pil medio pro capite sia aumentato. Questa attenzione alla distribuzione della ricchezza, delle opportunità, dell’accesso ai servizi, deve apparire nella foto di una società. La media non basta, ci vogliono almeno due numeri per ogni dominio, uno per la media, l’altro per la distribuzione».
È la fine del pollo di Trilussa?
«Tutti conoscono questa storia: io ne mangio due, tu nessuno, fa un pollo a testa. Ma se la media è uno, la varianza va da zero a due: gli statistici hanno concentrato la comunicazione dei dati sulle medie, e poco sulla distribuzione del reddito e dei consumi. Occorre riequilibrare questi due aspetti».
Per riparare, che cosa si fa?
«In Olanda, l’istituto di statistica ha sviluppato un software del tipo: sei una donna di 45 anni che lavora e ha due figli? Bene, secondo la statistica dovresti lavorare tot ore, riposarti tot, guadagnare tot. Se una persona non si riconosce, dice dove si posiziona rispetto a quello stereotipo. È un software aperto alla popolazione. Negli Usa è nata invece una nuova istituzione, che si chiama State of Usa. Il suo obiettivo è di fare quell’opera di semplificazione dello spazio generato dai numeri per definire un insieme di dati affidabili».
Vuol dire che l’eccesso di informazione può essere dannoso?
«Il rapporto tra informazione e ignoranza potrebbe essere rappresentato in un grafico. Fino a un certo punto, all’aumentare dell’informazione, l’ignoranza cade, ma quando si supera un certo livello di informazione la quantità disponibile è talmente grande che la gente si sente confusa, e l’ignoranza cresce. Dove siamo noi? Forse già in questa fase. Al punto che nasce una questione di democrazia: se viviamo nella società della conoscenza, il divario tra chi sa e chi non sa è il più grave di tutti. Come si fa a vivere in un paese in cui non si sa se l’inflazione è del 2,5 o del 20 per cento?».
Evoca un brutto momento per voi: le polemiche dopo l’adozione dell’euro. L’inflazione “percepita” era più alta di quella ufficiale dell’Istat. Siete stati accusati di barare.
«Ma la statistica è concepita proprio per andare al di là delle percezioni! E meno male che la gente in quel momento ha continuato a tenere i soldi in banca al 2 per cento… Il problema è appunto la distanza tra il chiacchericcio e la realtà, che può generare i comportamenti sbagliati. Comunque la sfiducia nei dati è un problema reale in molti paesi. Un sondaggio dimostra che in Francia e nel Regno Unito solo un terzo della popolazione dice di fidarsi delle statistiche. Perché? Perché la politica ha cercato di “migliorare” gli indicatori invece che la realtà. Faccio il caso inglese. Blair aveva sviluppato degli indicatori dettagliati per dare i finanziamenti agli ospedali. Uno era il taglio delle liste d’attesa. Ebbene, gli ospedali montarono delle tende fuori dei cancelli per accogliere le persone, perché la lista scattava solo quando uno varcava la soglia d’ingresso».
Come si garantisce l’autonomia dalla politica?
«Con il modello State of Usa, cioè creando in ogni paese una tavola bipartisan, come ha consigliato la commissione Stiglitz, per mettere a fuoco i 50 indicatori chiave che tutti dovrebbero usare quando, per esempio, si parla di sanità. La legittimità dei quei numeri verrà dalla comunità degli esperti, attraverso una specie di Wikipedia della statistica, che ho chiamato Wikiprogress, che serva a concordare una sorta di “costituzione statistica” collettiva, riconosciuta da tutti come una buona approssimazione dei domini in cui il benessere si articola».
Come farà Wikiprogress a scacciare i numeri cattivi e riconoscere quelli buoni?
«La statistica ufficiale può convivere con quella non ufficiale ma di buona qualità. Transparency International, o la Banca mondiale, producono stime su temi di cui la statistica ufficiale non si è ancora occupata. Ma nel sito, che abbiamo sviluppato come Ocse, tutto è messo a disposizione, ma occorre rispettare delle regole: se si vuole ottenere il bollino blu, il certificato di qualità dei numeri, si dovranno sottomettere i dati a delle comunità di esperti. Chi non vuole sottoporsi a questa trafila, potrà comunque mettere i propri dati nel sito, ma compariranno in rosso».
C’è chi dice che in Italia il benessere è già alto perché c’è ricchezza patrimoniale: case, risparmio…
«Questo ci può aiutare ad affrontare meglio la crisi nel breve termine. Ma il progresso deve avvenire senza intaccare il capitale: se distruggiamo ricchezza senza ricostituirla, nel lungo termine saremo fuori gioco».

Fonte: L'Espresso del 16 ottobre 2009

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