La Germania da brechtiana pallida madre a promettente sol dell’ avvenire? Un interrogativo simbolico che la sinistra democratica e riformista italiana potrebbe porsi con profitto. Così da rispondere al perché due grandi nazioni industriali della medesima area monetaria, abbiano anche negli stessi settori in concorrenza, ad esempio l’ automobile, una differenza salariale e di condizioni di lavoro così forte. Certo, i prodotti tedeschi, a parità di tipologia sono in molti casi migliori, così per quanto riguarda il divario di produttività. Che, peraltro, non finisce tutta nei profitti d’ impresa tanto che, mentre un operaio Volkswagen alla catena di montaggio percepisce 1.975 euro nette, oltre agli straordinari e assegni famigliari esentasse (200 euro a figlio) a quello Fiat ne vadano 1.200. Questi elementi differenziali andrebbero analizzati e spiegati, come andrebbe spiegata, per contro, la persistente capacità esportativa della media e soprattutto della piccola impresa metalmeccanica italiana, verificando quanto pesi concretamente nel nostro Paese la differenza nei rapporti di lavoro tra questo tipo di aziendee le altre di maggior dimensione, soggette a una diversa dinamica sindacale. Per avvicinarsi ad una spiegazione convincente si dovrebbe, però, partire da un approccio storico-culturale e chiedersi se la nostra arretratezza non vada fatta risalire alla convinzione ideologica, che ci portiamo dietro dall’ Ottocento, secondo cui la gestione dei rapporti di lavoro, sotto ogni aspetto, ricada sotto la legge di una lotta di classe, moderabile contrattualmente ma senza mai perderne di vista la permanente valenza conflittuale. Un quadro su cui hanno convenuto non solo i sindacati di ascendenza marxista ma anche gli imprenditori che hanno sempre rifiutato forme di cooperazione (vedi l’ ostilità ai Consigli di gestione nati dopo la Liberazione, rapidamente debellati dalla Confindustria), così come hanno affrontato la concorrenza, da un lato attraverso bassi salari e, dall’ altro, contando sulla svalutazione periodica della lira. Le asprezze della vicenda Fiat indicano la difficoltà di trovare un nuovo paradigma in luogo di quello andato in pezzi, dopo la caduta del Muro e la nascita dell’ Euro.E qui veniamo al paradigma tedesco, articolato nella «economia sociale di mercato». Essa si basa fin dal 1949 nella difesa della stabilità monetariae di una solida politica dei conti pubblici, che le devastazioni delle passate inflazioni hanno tramutato in una specie di religione somatizzata dalla moneta. Per questo la rinuncia al marco per l’ euro è stata una grande scommessa, resa possibile dalla accettazione degli stessi principi da parte della Banca centrale europea. Sul versante politicosindacale il punto di partenza risale alla cosiddetta svolta di Bad Godesberg, nel 1958, quando il partito socialdemocratico (Spd) si riconobbe nel valore costitutivo dell’ economia di mercato. Il che non volle certo dire arrendersi al potere e al buon volere degli industriali tedeschi ma costruire nuove forme di contestazione collaborativa e di controllo come la «mitbestimmung» (cogestione) con rappresentanza sindacale nei comitati di sorveglianza aziendali e, soprattutto, nel formulare le rivendicazioni, seguite a volte da scioperi durissimi, nel quadro, però, delle compatibilità macro economiche, determinate anno per anno dal rapporto del «Comitato dei cinque saggi», di nomina governativa, composto dai più autorevoli economisti delle varie scuole di pensiero. È chiaro come dietro tutto ciò vi sia una ideologia riformista nelle sue linee fondamentali fatta propria ormai sia dalla Spd che dalla Cdu (democristiana). Questo substrato culturale, che potremmo benissimo chiamare «ideologia» come patrimonio di valori compatibili e condivisi della nazione, rappresenta la causa prima del successo economico tedesco, come anche dei risultati e della forza dei suoi sindacati. Un insegnamento che sta a noi accogliere o meno.
Fonte: Repubblica del 31 gennaio 2011Germania pallida madre o Sol dell’avvenire?
Gennaio 31st, 2011
0 Commenti
887visualizzazioni
L'autore: Mario Pirani - Socio alla memoria
Commenti disabilitati.