Allarme energia. È stato questo l’argomento più gettonato dell’estate, il tormentone di mille esternazioni, il monito risuonato da tavole rotonde e convegni da ogni capo della penisola, ultimo della serie il meeting di Rimini. Dove la coppia d’oro dell’energia italiana, composta dall’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti e dal suo omologo dell’Eni Paolo Scaroni, lo ha ancora ripetuto: il sistema Italia non è affatto al riparo dai rischi che ha già corso l’inverno passato con la crisi delle forniture di gas russo. Certo, quell’esperienza ha portato a stringere le maglie della rete di sicurezza, a sanare i buchi più grossi. Ma non ancora a farci dormire sonni tranquilli. “La situazione non è sostanzialmente diversa né migliore rispetto all’inverno scorso”, sintetizza Fulvio Conti, “purtroppo allora l’allarme, che io lanciai per primo, mi costò i rimbrotti del passato governo”.
Il governo attuale le sembra più sensibile?
“Intanto ha creato una cabina di regia per sbloccare i rigassificatori: in questo modo molte delle contraddizioni che si manifestano a livello locale potranno essere superate”.
Qualcuno insinua che dare la regia a Palazzo Chigi suoni come un esproprio del ministro competente, Pierluigi Bersani…
“Non la vedo così. È invece un momento di sintesi politico-amministrativa a vantaggio dei fabbisogni infrastrutturali del paese. Pensi che la costruzione del nostro rigassificatore, in Sicilia, pur avendo ottemperato a tutte le normative di legge s’è impantanata in un conflitto burocratico tra Consiglio superiore dei Lavori pubblici e Genio civile che non si riesce a sbrogliare. Forse così sarà risolto”.
L’Enel ha nel cassetto un piano straordinario da usare in caso di emergenza?
“Il nostro paese importa l’85 per cento dell’energia che consuma; ha solo quattro tubi per rifornirsi del gas con cui alimenta la maggior parte delle centrali elettriche italiane. Insomma, abbiamo scelto l’addio al nucleare e la dipendenza dal gas: è difficile rimediare in fretta”.
Vuol dire che in caso di necessità le scappatoie sono le stesse dell’inverno scorso?
“Sì: ci hanno salvato i vecchi impianti Enel che possono funzionare anche a olio combustibile. Riattivati nel bel mezzo della crisi russo-ucraina, ci hanno consentito di risparmiare 20 milioni di metri cubi di gas al giorno. Certo, abbiamo emesso un po’ più di anidride carbonica. Ma oggi questa rimane pur sempre l’unica alternativa”.
Vuol dire che non ci sarà un metro cubo di gas in più sul fronte degli approvvigionamenti?
“No, perché non si sono ancora realizzati gli aumenti di capacità sui gasdotti, e in particolare sul Tag, la tubatura dalla Russia. Per l’immediato tutto dipenderà anche dalle condizioni meteorologiche e dai consumi dei paesi che prima di noi ricevono il gas russo”.
L’inverno scorso il livello di guardia si è raggiunto anche perché i prezzi del chilowattora più alti in Europa hanno indotto molti produttori italiani a esportare energia…
“Lo ritengo un effetto positivo della liberalizzazione. Negli ultimi sette anni l’Enel e gli altri produttori hanno investito in totale 20 miliardi di euro in nuova capacità, mentre molti grandi operatori del nord Europa restavano fermi. Il risultato è che in termini di potenza istallata l’Italia non dovrebbe correre rischi di black-out. Ma negli altri mercati il prezzo è salito ed è diventato attraente nei periodi di maggiore consumo. È successo anche questa estate: in Germania nelle ore di picco si sono pagati fino a duemila euro a megawattora, contro i normali 100-150. È chiaro che in questi casi i trader che devono importare da noi dirottano la produzione dove vendono meglio, e i nostri produttori privati esportano con profitto”.
Allora la liberalizzazione fa bene ai bilanci ma non al sistema paese.
“Per il sistema paese c’è bisogno di maggiori investimenti per diversificare le fonti e operatori con dimensioni di scala forti che abbiano maggiore potere d’acquisto nei confronti dei giganti della materia prima. La crescita di Enel all’estero risponde a queste esigenze”.
Per dialogare con Gazprom non sarebbe più adatta l’Unione europea?
“In termini politici certo, ma poi devono scendere in campo le aziende, che devono avere dimensioni di scala. Per costruire l’Europa delle grandi aziende occorre espandersi oltre i propri confini ed essere presenti nei macro-mercati regionali europei. È quello che Enel sta facendo”.
Il suo ‘mantra’ è: carbone, rigassificatori, rinnovabili. Il nucleare lo producete all’estero, con la società slovacca che avete da poco acquisito. Importerete qui quell’energia?
“Per ora non è possibile. In futuro forse sì, ma si dovranno potenziare le reti di trasmissione”.
Quelle centrali vi servono per abbattere i costi di produzione. Altrettanto dovrebbe fare il carbone. Ma la conversione della centrale di Civitavecchia è bloccata dal ripensamento della Regione Lazio. Avete appianato?
“Abbiamo già vinto tante battaglie… Civitavecchia è il più grosso cantiere italiano oggi al lavoro, verrà utilizzato carbone a basso contenuto di materie inquinanti, con costi inferiori agli altri combustibili, nel pieno rispetto delle normative ambientali. Inoltre, Civitavecchia potrebbe diventare un centro di eccellenza per l’impiego di fonti rinnovabili. Se l’obiettivo è quello di diminuire il costo della bolletta degli italiani, abbiamo molte buone ragioni per andare avanti”.
Anche i rigassificatori possono avere questo ruolo virtuoso di abbattimento dei costi?
“Non necessariamente il gas liquefatto costa meno. Ci sono pochi paesi che lo rendono disponibile, dal Golfo Persico, dal Mediterraneo, o da Trinitad e Tobago. Di certo, inserirlo nel mix degli approvvigionamenti riduce il nostro rischio geo-politico”.
Se non costa meno e lo producono in pochi, troppi i rigassificatori non finiscono per creare un’altra dipendenza?
“Ne servono quattro o cinque, per un totale di 40 miliardi di metri cubi. La metà di quanto consumiamo oggi”.
Per metterci al riparo dal black-out non sarebbe utile una bella campagna di riduzione dei consumi elettrici?
“La facciamo: abbiamo regalato tre milioni di lampadine a basso consumo, e proponiamo tariffe per incentivare i consumi fuori delle ore di punta. Comunque i grandi consumatori non sono le famiglie ma i cosiddetti ‘energivori’ che producono acciaio o alluminio… e questi hanno già ridotto la quantità di energia per unità di prodotto. Abbiamo superato tanti ‘oil shock’, dobbiamo attrezzarci per superare anche questa crisi del gas”.
Fonte: L'Espresso del 25 agosto 2006