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Fmi, un’occasione per i paesi emergenti

Guardiamo oltre la tradizione occidentale
A quanto pare sarà la volitiva Christine Lagarde, ministro dell’Economia del governo Fillon, a sostituire Dominique Strauss-Kahn nella carica di direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. I bookmaker sul suo nome pagano 1,8 mentre danno 4 a 1 il turco Kemal Dervis e persino 20 a 1 l’ex premier inglese Gordon Brown. Insomma, un cambio tutto francese, oltre che una riconferma della regola non scritta per cui fin dalla sua creazione nel 1944 l’Fmi è stato guidato senza eccezioni da un europeo. Ma siamo proprio sicuri che si tratti di una buona scelta? Non parlo della Lagarde, sia chiaro, ma della “tradizione” che con essa verrebbe riconsacrata. Il dubbio, più che fondato, lo fa sorgere il ragionamento esposto, in queste ore di conciliaboli internazionali, dal segretario generale dell’Ocse, il messicano Angel Gurria. Egli ricorda che nel momento in cui sono nati gli attuali organismi economici mondiali, come appunto Fmi e Ocse, i paesi ricchi, con l’Europa in testa, rappresentavano l’80% del pil planetario, mentre oggi sono poco oltre il 50%, soglia sotto cui scenderanno nel 2030. “Per questo”, dice Gurria, “la governance delle istituzioni internazionali deve rappresentare questa evoluzione”. E poi, diciamoci la verità: la spartizione fatta da Usa e Ue ai tempi di Bretton Woods – Banca Mondiale agli americani, Fmi agli europei – è figlia di quegli assetti post-bellici stabiliti a Yalta che da tempo non esistono più. Logico, quindi, che si candidi qualcuno espressione di “un’economia emergente, di un paese in sviluppo”. Un turco? Ottimo, sarebbe il viatico per aprire finalmente le porte dell’Europa al paese più strategico nell’area di cerniera tra Occidente e mondo islamico. Un asiatico? Avrebbe senso. Un brasiliano? Ancora meglio.
Ciò che conta è un gesto di apertura a chi oggi tira la carretta dell’economia mondiale. E non per altruismo o per un senso di equanimità. No, per interesse. E interesse prima di tutto dell’Europa, visto che gli Stati Uniti già godono dell’esistenza di un virtuale ma più che concreto G2 fatto tra loro e la Cina. Siamo noi continentali, resi deboli, nella già difficilissima partita della competizione globale, dalla crisi finanziaria e dalla successiva recessione, ad aver bisogno – sul piano geo-politico e geo-economico – di saldare alleanze a tutto campo con chi sta vincendo. Capisco che questo discorso sia restia a farlo la Francia, che ha la poltrona dell’Fmi a portata di mano e deve recuperare l’immagine scalfita tanto dalla disavventura di DSK quanto dal sospetto del complotto in vista delle prossime presidenziali. Può farlo la Merkel, spinta dal fatto che la Germania è il maggiore paese esportatore del mondo e a comprare le sue merci sono in modo crescente i paesi emergenti. Ma deve fare i conti con l’immagine interna, già indebolita dall’aver dovuto rinunciare alla corsa per la Bce. Potrebbe farlo invece l’Italia, che non può certo aspirare a quel posto avendo già piazzato Draghi a Francoforte. Sì, i francesi hanno dato una grossa mano al governatore di Bankitalia con quella benedizione data nel modo giusto e al momento giusto da Sarkozy. Ma ormai il dado Bce è tratto, e a parti rovesciate l’inquilino dell’Eliseo non ci penserebbe due volte. Certo, ci vorrebbero la politica e un premier che pensi a governare…

Fonte: Messaggero del 22 maggio 2011

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