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Fisco e lavoro, la chiarezza che non c e.

Caro direttore, Renzi, se vuole, è capace di parlar chiaro. Lo ha dimostrato con le riforme istituzionali (Senato e legge elettorale): erano chiari gli obbiettivi, i tempi, le alleanze politiche, e il metodo, almeno per ora, sembra averlo premiato. Invece quando dice che «in nessun caso noi sforeremo il 3%» nel rapporto tra deficit e prodotto interno lordo (Pil), non riusciamo a capire se questa è una buona o una cattiva notizia. Cioè se significa che ha scelto la strategia di «tagli marginali e qualche aumento nascosto della pressione fiscale» che, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 17 agosto), «ci regalerebbe un altro anno di crescita negativa», oppure se vuol dire che questo per lui è solo un traguardo di tappa, e che non ha rinunciato alla «strategia coraggiosa» che gli consigliano.

Che la politica sia fatta di narrative, Renzi lo sa come pochi: politica è muovere gli animi, orientare decisioni, suscitare aspettative. Ma viene il momento in cui bisogna parlar chiaro. Incominciando magari proprio da quel 3%: che è «stupido», come diceva Prodi, solo se induce alla stupidità di fissarsi sul saldo senza guardare come è composto.

Ad esempio: che c’entrano con quel 3% le riforme del mercato del lavoro e della giustizia civile? Avrebbero dovuto essere fatte, quelle riforme, da alcuni lustri, fanno parte del programma del suo governo, non incidono (se non, e ancora, in modo indiretto) sul deficit. Non sono le poste di un gioco per cui, se le facciamo, magari possiamo essere trattati meglio: sono la condizione minima per sedersi al tavolo senza arrossire.

Prendiamo gli 80 euro di bonus Irpef: è legittimo vantarli come una riduzione di imposte? Tecnicamente sì: ma se sono finanziati, poniamo il caso, con un taglio alle pensioni sopra i 3.500 euro, in realtà sono una redistribuzione da una categoria di cittadini a un’altra. E se a finanziare l’abbassamento delle imposte fosse una sforbiciata dei costi della politica, degli stipendi milionari ai boiardi di Stato, dei tanti consulenti? Ci vuole chiarezza assoluta: ridurre gli sprechi consente di disporre di più risorse: ma se produrranno più crescita dipende solo da come esse vengono impiegate. Non è la stessa cosa se finanziano un aumento della spesa pubblica o invece un taglio delle tasse (e quale spesa pubblica e quali tasse). C’è una riforma che paga due volte, è quella che riduce l’impronta della Pubblica amministrazione (P.a.): per lo Stato riduce i costi di ciò che fornisce, per i cittadini aumenta la qualità di ciò che ricevono. Ma siccome neanche al tavolo delle riforme si servono pasti gratis, di tutte questa è la più difficile. Il che non giustifica che oggi non se ne sappia assolutamente nulla. Anzi.

Nei bilanci, non conta solo «l’ultima cifra in basso a destra»: contano le poste attive e quelle passive che formano il saldo. È giunto il momento in cui la narrativa non basta più. Quello che Renzi ha fatto per le riforme istituzionali deve farlo per quelle strutturali e per la spending review, o come ora si chiama. Deve spiegare, e impegnarsi, sulle poste attive e su quelle passive: quali e quanti tagli delle spese, quali e quanti da modifiche strutturali della P.a.; quali e quante riduzioni delle tasse; quali e quanti investimenti pubblici. E quando.

Deve anche dire con chi si coalizzerà per realizzarle. Per le riforme istituzionali si trattava di alleanze politiche; per le riforme strutturali sono alleanze sociali. Se una riforma non viene fatta è perché c’è un interesse che vi si oppone: riformare vuol dire ammainare il vessillo intorno a cui quell’interesse si è organizzato. Per il lavoro, è il principio della job property, quello che identifica il diritto al lavoro con il diritto a un particolare posto di lavoro; per la giustizia è il principio dell’indipendenza assoluta del magistrato; per il fisco, il principio per cui la lotta all’evasione consente qualunque intrusione dell’amministrazione nella vita privata, e quella all’elusione qualunque estensione dell’intenzione del legislatore. Tacendo sul tema delle alleanze, Renzi rischia di alienarsi chi queste riforme le teme e di deludere chi, invece, vi spera.

Fonte: Corriere della Sera - 21 Agosto 2014

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