Le vicende un po’ stralunate della manovra di correzione dei conti pubblici hanno messo in ulteriore evidenza il fatto che fra gli andamenti del circuito finanziario internazionale e quelli della vita quotidiana dell’ economia reale, delle imprese, delle famiglie (del «popolo» se mi si passa l’ abuso di termine) sta crescendo la frattura e la lontananza, nel totale vuoto di ogni istanza e potere fra loro intermedi. Qualcuno ha detto di recente che la finanza è il cervello dell’ economia e che è quindi naturale che, quando il cervello entra in crisi, tutti gli altri soggetti entrino in sofferenza. A parte i dubbi sulla finanza come cervello (ha solo flussi e non sistema nervoso), è a dir poco inammissibile che nessuno si applichi a capire perché e come la finanza continui la sua corsa verso l’ incontrollabilità planetaria, causa ed effetto di una speculazione sempre più devastante; e che al contempo nessuno abbia capacità di controllarne la crisi; che tutti vivano passivamente l’ impazzimento delle sue procedure;chei sentimenti prevalenti siano la paura e lo spavento che l’ accompagnano; e che in conclusione sia lo spavento a guidare il suo affannoso contenimento, specialmente a livello nazionale. Se guardiamo alle provinciali cose italiane, facilmente riscontriamo tale sequenza: se la ripercorriamo all’ indietro troviamo in questi giorni l’ affanno delle cose da decidere, lo spavento (il rischio Grecia riproposto a oltranza), la passività fatalistica di fronte a cose più grandi di noi, il lassismo rispetto alle piroette finanziarie, la rinuncia a esercitare capacità e potere su di esse. Tutto ciò, molte miglia più in basso, ha effetti molto disturbanti sulla vita quotidiana di quel che ho chiamato «popolo»: le famiglie sanno che con le manovre arriveranno sacrifici più o meno precisati, le piccole imprese sanno che sarà sempre più difficile ottenere credito per le loro attività; le grandi imprese sanno che dovranno faticare e duramente ristrutturare; tutti sanno che ogni manovra porta disoccupazione; le amministrazioni locali sanno che avranno sempre meno soldi e daranno sempre meno servizi; le diverse attività terziarie (dal credito ai trasporti) sanno che l’ ipotesi per loro più probabile è di continuare a navigare a vista, Si può in sintesi dire che lo spavento e le manovre alimentate dall’ alto e dall’ esterno finiscono per avere l’ effetto di una frustrazione e quasi una depressione collettiva, con buona pace di chi incita a rilanciare ripresa e crescita economica. Le stesse armi tradizionali del popolo (il conflitto e la negazione del consenso) sono rese inerti dalla collettiva frustrazione. Può una società complessa come la nostra accettare la crescente estraneità fra i potenti destini dei circuiti finanziari ed i poveri destini di un popolo sempre più passivo? La risposta cinica sarebbe che può, visto che già lo fa, e senza troppi drammi; ma il dramma vero è che a breve quell’ estraneità uccide le istanze alla necessaria «ripartenza», mentre a lungo termine essa rende slabbrata l’ identità nazionale e conflittuale la vita sociale. È quindi necessario contrastare la lontananza fra finanza e popolo: e per far questo occorre far crescere soggetti e poteri che sappiano occupare lo spazio lasciato vuoto dalle due dimensioni oggi divaricanti: soggetti che sappiano fare politica attiva verso l’ alto, nella gestione dei circuiti finanziari; e soggetti che sappiano fare mobilitazione dal basso della vitalità sociale oggi «in sonno». Purtroppo non si vedono oggi soggetti intermedi capaci di far politica attiva verso l’ alto: i poteri comunitari (mondiali e europei) sembrano inconcludenti, prigionieri nella loro pletorica e costosa tecnocrazia (ne abbiamo il sentore quando vediamo sfilare le immagini televisive delle loro affollate riunioni); i singoli governi nazionali sembrano condannati a contar poco quando la speculazione li attacca frontalmente (al massimo sono chiamati a far da «assicuratori di ultima istanza»); ed i poteri forti delle varie economie, cioè le concentrazioni bancarie e finanziarie, non riescono a far sistema e alla fine tentano solo di cavarsela e/o di cavalcare furbamente le onde della congiuntura. Tutti insieme non sono in grado di evitare che il circuito finanziario internazionale continui a coltivare la sua autoreferenziale coazione a speculare. Il popolo resta solo, nel vuoto della politica. E, se non vuole condannarsi alla passiva indifferenza di chi non capisce cosa stia succedendo, dovrà prima o tardi reagire: non favorendo, se possibile, fondamentalismi antispeculativi e magari anticapitalistici, ma organizzando la sua forza strutturale (nell’ economia reale, nelle imprese, nei patrimoni familiari) in movimenti e soggetti intermedi di iniziativa e responsabilità. Potrebbe non essere impossibile sfidarsi «a far da soli» (come ha detto un importante imprenditore), se non si resta dispersi nelle singole molecole di impegno e se si riesce a far crescere una rappresentanza di interessi che raccolga e valorizzi, ma al tempo innovi, i corpi intermedi (imprenditoriali, sindacali, associativi, localistici, ecc.) che hanno dato ampie prove di responsabilità collettiva nei nostri momenti più duri e che cominciano a dar segni di voler uscire dal letargo in cui sono stati marginalizzati dai protagonismi di verticalizzazione politica degli ultimi anni. Diamoci un pò di speranza, ne abbiamo bisogno.
Fonte: Corriere della Sera del 29 maggio 2010Finanza e popolo sempre più lontani Una speranza nel “fare da soli”
L'autore: Giuseppe De Rita
Commenti disabilitati.