Il rischio che il federalismo fiscale finisse nel tritacarne politico era già alto in passato e in questi giorni di «sospensione delle egemonie» lo è evidentemente ancora di più. Scorrendo le dichiarazioni rilasciate in queste ore le parole «ricatto» e «tradimento» fanno bella mostra di sé,mentre ci sarebbe bisogno di un esercizio di esponsabilità. Si prendono decisioni che non sarà facile smontare e che comunque avranno riflessi che vanno ben oltre la durata di un governo. Proviamo, dunque, a non urlare e a mettere in fila i problemi.
Siamo tutti d’accordo che il bello del federalismo sta nella responsabilizzazione delle classi politiche locali che, a fronte delle competenze che il centro trasferisce loro, potranno avere autonomia di imposizione fiscale sui cittadini. Molti Comuni versano oggi in grave difficoltà, non pagano addirittura i fornitori e quindi faranno sicuramente ricorso a nuove tasse, ma è altrettanto evidente che dovranno operare con giudizio per non subirne i contraccolpi in termini di credibilità e di consenso. Prendiamo il caso concreto dei sindaci leghisti la cui sofferenza politica – a cominciare da quello di Varese, città simbolo – era emersa nettamente nell’ultimo raduno di Pontida. La spesa per investimenti nelle comunità amministrate dal Carroccio è caduta verticalmente per i vincoli del patto di stabilità interna: che scelte faranno i sindaci? Riprenderanno a spendere, a migliorare la qualità della vita urbana e, dopo, come si rapporteranno al loro elettorato particolarmente allergico alle tasse?
Queste domande in una costruzione federalista perfetta non dovrebbero aver campo perché i sacri testi recitano che, a fronte di competenze devolute alla periferia, il centro dovrebbe ridurre il prelievo erariale. Due punti di Irpef passati alle Regioni per far fronte alle nuove spese dovrebbero essere compensati da due punti di Irpef in meno dal centro. Ma sarà così? Oppure vista la particolare e critica situazione del budget pubblico si andrà verso uno slittamento temporale, magari rimandando il tutto alla riforma fiscale? Qualche voce si è già levata in queste ore per denunciare il pericolo di un aumento della pressione fiscale dovuta alla generalizzazione e all’inasprimento delle addizionali comunali sull’Irpef. Anche perché sul tema, a giudizio degli addetti ai lavori,la legge delega resta un po’ sul vago.
A complicare il quadro c’è sicuramente il pasticciaccio sull’Ici. In tutti i Paesi occidentali gli enti locali si finanziano in primo luogo con la tassa sulla casa, da noi prima il governo Prodi e poi l’esecutivo presieduto da Silvio Berlusconi hanno abolito a tranche l’Ici, tagliando così le gambe alla finanza locale pur di accrescere i consensi per i governi di Roma. Se si fosse opposta maggiore resistenza alla facile demagogia non avremmo automaticamente risolto tutti i problemi, ma ci troveremmo nell’applicazione dei nuovi schemi federalisti in una situazione meno complicata. Ora è difficile fare un’inversione a U, eppure nel dibattito politico si sta affermando la consapevolezza che delle entrate Ici,anche solo in parte, non si può fare a meno.
Si discute dunque e si litiga sul federalismo fiscale ma mancano ancora i numeri dei costi standard dei servizi. Quelli sì ad alto potenziale elettrico! Finché non li vedremo conteggiati in euro pro capite non sapremo chi veramente ci perde e chi ci guadagna. E fino ad allora non sapremo quale assetto politico è in grado davvero di condurre in porto la nave federalista.
Federalismo con più tasse?
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