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Fare Cuccia senza essere Cuccia

In anni decisivi, posto su salde radici,il sistema Mediobanca ne fece di tutti i colori (sotto la sorveglianza del vecchio boss).Ma tutto cambia con il nano-secondo del trader, i vecchi impicci sono grotteschi.
E’ possibile fare il mestiere di Enrico Cuccia senza essere Cuccia? La domanda è d’obbligo leggendo gli sviluppi dell’ultimo (in ordine di tempo) feuilleton su Mediobanca e il club dei vecchi amici (tra i quali spicca Salvatore Ligresti). La risposta è facile: no. Più difficile, invece, risolvere il dilemma sul futuro della banca d’affari che un tempo custodiva i segreti dell’alta finanza milanese, nascondendoli a tutti, soprattutto a vigilanti e controllori. Di Cuccia ce n’era uno solo. Per fortuna dicono gli alfieri del mercato. Peccato, sostengono i cultori della finanza sistemica. Se ne sono accorte le grandi famiglie del capitalismo italiano, compresi gli Agnelli, che dopo la morte del banchiere romano hanno imboccato senza ritorno il viale del tramonto. Ed è chiaro che Alberto Nagel non è in grado di superare il maestro.
Ne ha fatte, Enrico, più di Carlo in Francia. Con la sua disistima di un capitalismo privo di capitali, il sospetto profondo verso la politica e la mano ben visibile dello stato, l’ingegno del costruttore di architetture così ardite da non reggersi in piedi, Cuccia ha dominato il trentennio in cui, dagli anni ’70 in poi, la grande industria italiana ha consumato il proprio declino. Il “centauro con il corpo pubblico e la testa privata”, come egli stesso si definì, ha sempre avuto un cruccio: le Assicurazioni Generali. Molte grandi manovre servivano a tenerle sotto la sua influenza. La più clamorosa, nel 1973, fallì per la reazione dell’allora presidente Cesare Merzagora. Era stato orchestrato di sostituirlo con Camillo Debenedetti (cugino di Carlo), mentre un pacchetto di azioni decisivo per l’equilibrio proprietario veniva spostato in una oscura finanziaria lussemburghese, Euralux, custodita da Lazard e dagli Agnelli. Fu l’inizio di una catena di guerre finanziarie che coinvolsero l’establishment e chi lo sfidava, attraversando la politica italiana (Andreotti era il grande nemico), fino ad arrivare allo stesso Ligresti. Il patto con don Salvatore risale a quei tempi e il costruttore siciliano divenne il custode di una quota chiave per controllare Mediobanca, ma anche l’intermediario verso il potere craxiano, nel tentativo di difendere la banca d’affari dall’attacco della Dc, guidato da Beniamino Andreatta e sostenuto da Romano Prodi, presidente dell’Iri (alla quale indirettamente Mediobanca faceva capo). Se vero, l’accordo segreto con Ligresti potrebbe essere l’ultima cambiale da pagare. Se Nagel avesse firmato solo un pro memoria, segnerebbe comunque il mesto declino di un mondo. Da quel 23 giugno 2000 in cui si spense Cuccia, il groviglio dei poteri forti si è allentato. Gli Agnelli ne sono fuori. Le banche che un tempo tenevano in vita Mediobanca hanno cambiato pelle e nome (Unicredit, Intesa). Resta l’eterna lotta attorno al Leone di Trieste.
Nagel ha fatto sentire il suo peso defenestrando Giovanni Perissinotto il giugno scorso. Ma quante divisioni ha Mediobanca? Il titolo vale solo 2,68 euro, l’80 per cento in meno rispetto al luglio 2007 quando è cominciata la crisi. Gli affari languono. La stessa operazione con Unipol per evitare il fallimento dei Ligresti, serve a salvare la banca da perdite per un miliardo di euro.
Quando il 31 maggio 1994, ricevette l’avviso di garanzia per il crac del gruppo Ferruzzi, il Grande Vecchio reagì con spavalda perfidia: “Se tutte le volte che do un consiglio a un mio cliente divento amministratore di fatto della sua società, allora è meglio che cambio mestiere”. In realtà, quel mestiere che svolgeva con maestria e spregiudicatezza, è cambiato davvero. Nell’era dello spread, quando i quattrini circolano alla velocità di un nanosecondo nelle mani di baldi giovanotti in grado di far fallire la Grecia, culla della civiltà occidentale, che senso ha il sistema Mediobanca?

Fonte: Il Foglio.it del 3 agosto 2012

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