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“Famiglie e consumi low cost, il nuovo mercato del made in Italy”

La cifra viene fuori parlando con il professor Luigi Campiglio, pro rettore dell’Università Cattolica di Milano, che da anni lavora certosinamente per fotografare la distribuzione del reddito degli italiani. Si può calcolare che nei prossimi anni ci saranno in Italia 13-15 milioni di famiglie che disporranno di un reddito mensile di 1.500 euro al mese o poco meno. Si tratta per lo più di nuclei il cui capofamiglia è un pensionato, un operaio, un giovane precario o un lavoratore extracomunitario stabilizzatosi in Italia e rappresentano una sorta di «cuscinetto sociale» che rimane al di sotto della media dei redditi dei cittadini italiani e sopra però la soglia di povertà. «Sono famiglie e persone che in questa fase di recessione economica cercano di conservare il loro tenore di vita precedente a costo di sacrificare il risparmio» sintetizza Campiglio.
Aggiungiamo che dal punto di vista dei consumi si tratta di soggetti che, vuoi per abitudine conseguita nel tempo vuoi per sensibilità, sono orientati ad acquistare prodotti e servizi di qualità italiana ma nello stesso tempo vanno alla ricerca di prezzi contenuti, low cost. Per conquistare questa amplissima fascia di mercato quali scelte hanno in mente di fare la manifattura e il terziario italiano? Saranno in grado di coprire questa domanda o lasceranno via libera alla concorrenza cinese, alle multinazionali del basso prezzo e alla contraffazione? Il made in Italy d’eccellenza, oltre a puntare (giustamente) sull’incremento dell’export e sulla fascinazione delle nuove middle class dei Paesi Bric, riuscirà a guardare anche ai consumi interni, magari tirando fuori qualche idea innovativa? Procediamo per gradi.
Innanzitutto i conti di Campiglio sono condivisi dagli esperti di statistiche del lavoro. Lionello Tronti, dell’Università Roma Tre, giudica «attendibile» la stima sulle famiglie con 1.500 euro e pensa che sia possibile sviluppare «una produzione italiana di buona qualità e basso costo». A livello industriale però bisogna introdurre due novità: «Spostarsi sulla grande serie e facilitare l’aggregazione dei Piccoli, alla svelta». Salvatore Rossi, capo del servizio Studi della Banca d’Italia, ottimo conoscitore della realtà delle imprese italiane, giudica «un’operazione non facile» la messa a punto di un’offerta nazionale low cost, perché «le caratteristiche che qualificano il made in Italy costano», ma aggiunge che «vale comunque la pena provarci». Per soddisfare il mercato che chiede prezzi contenuti Rossi pensa che sia più facile che «le piccole imprese operino un salto di gamma piuttosto che le grandi marche scendano di un piano».
Che il tema sia di stretta attualità e non sia solo oggetto di simulazioni di business lo dimostra il rapporto annuale dell’Assolowcost che raggruppa le aziende (italiane e non) che vanno facendo esperienze di questo tipo e il seminario che il Cuoa, la scuola di management del Nord Est, organizza per giovedì 21 ottobre. Spiega Andrea Cinosi, presidente della nuova associazione: «Un buon low cost è capace non solo di servire il mercato già esistente ma anche di allargarlo. Pensiamo ai voli aerei, fino al ’97 potevamo contare su 30 milioni di passeggeri, dopo l’avvento del low cost sono diventati 160 milioni. E anche le grandi compagnie hanno preso atto della novità». Cinosi fa molti esempi di aziende italiane che si sono incamminate sulla strada giusta, da Camicissima a Tezenis,da Oviesse a Intimissimi.
«Sia chiaro però: operazione low cost non è solo prezzo basso,è anche il risultato di un’ottimizzazione dei processi industriali e distributivi a monte. È un modello di business più sofisticato che gioca su un mix inedito di valori, la qualità e il prezzo basso». Aggiunge Romano Cappellari (Cuoa): «Spesso il prezzo alto nasconde delle inefficienze, non si sa ristrutturare e ci si rifà con il consumatore. Invece per essere leader nel low cost bisogna essere molto bravi. I soldi qui si fanno con i volumi ed è questa la lezione che ci consegnano due casi di successo internazionale come Ikea e Ryanair, capaci di un approccio con il mercato che potremmo definire democratico, inclusivo». Non tutti gli esperimenti di prezzo basso hanno funzionato allo stesso modo, va detto: in Germania i grandi magazzini hard discount spopolano e per risparmiare sui costi dell’affitto sono ospitati negli scantinati. Invece da noi la formula non è riuscita a farsi amare. «Probabilmente da noi questa fascia di consumatore si considera moderno e non povero, o almeno non vuole apparirlo».
Il rapporto di Assolowcost segnala che le famiglie che scelgono il basso prezzo di qualità possono risparmiare da 1.300 a oltre 5 mila euro l’anno e intanto per le aziende che hanno scelto quest’indirizzo non c’è crisi. Gli incrementi di fatturato per il 2010 sono stimati tra il 6 e l’8%. Le esperienze sono le più disparate. Nei servizi, ad esempio, ci sono casi interessanti come Apollonia, che offre servizi dentistici, è nata a Gemona (in Friuli) e ha iniziato nel primo anno con oltre 6 mila visite gratuite, trasformatesi poi per il 75% in acquisizione di clientela. A Milano il Centro Medico S. Agostino nel suo primo mese di attività aveva fatto registrare oltre mille prenotazioni di visite. Camicissima con la formula di quattro camicie a 99 euro nel 2009 ha incrementato le vendite del 18% ed è arrivata a 92 punti vendita.
Ora tenta addirittura di esportare la ricetta aprendo a New York. Mercatone Uno, la società romagnola della famiglia Cenni, è cresciuta dell’11% nei primi sei mesi del 2010 puntando sul binomio qualità e convenienza. Ed è di pochi giorni fa la notizia che un imprenditore che si occupa di distribuzione da anni, Mario Esposito, sta per lanciare una catena di outlet del design. Secondo Cinosi è maturo il tempo per iniziative low cost anche in altri settori come l’edilizia residenziale («obiettivo: una casa che costi mille euro al metro quadro chiavi in mano»), l’hotelleria («non c’è bisogno di una stanza da 14 metri quadri per ospitare un buon letto matrimoniale») e le calzature («il made in Italy deve studiare soluzioni innovative e si deve sbrigare prima che lo facciano altri»). Per il presidente di Assolowcost l’esperienza che gli italiani dovrebbero studiare, studiare e poi replicare è sempre «quella del Benetton degli albori».Un evergreen.
Cosa ne pensano i diretti interessati,i rappresentanti dell’imprenditoria piccola e media? Per Giancarlo Guerrini, presidente di Confartigianato, i margini economici di un’operazione low cost sono stretti. «Occorrono quindi misure sul costo del lavoro e sugli oneri delle imprese. Senza di queste e senza favorire fiscalmente chi assume, ogni ragionamento pur lungimirante rischia di restare al palo». Eppure, aggiunge polemicamente Guerrini, dovrebbe essere chiaro a tutti che l’industria d’eccellenza non fa crescere l’occupazione, «siamo noi Piccoli a farcene carico».
La sorpresa, però, arriva da Federlegno-Arredo, una delle casematte del made in Italy d’eccellenza impegnata allo spasimo per accrescere i livelli di export. «Anche noi pensiamo che quel mercato delineato dai numeri di Campiglio rappresenti una grande opportunità, per questo stiamo guardando con attenzione ai progetti di social housing» dice Giovanni De Ponti, amministratore delegato dell’associazione. Il social housing interessa una fascia di popolazione che può pagare un affitto ma non può permettersi di rivolgersi al libero mercato per trovar casa. Per i prossimi cinque anni sono previsti investimenti per 10 miliardi di euro tra soldi pubblici, Cassa depositi & prestiti e banche.
Le aziende associate a Federlegno sono interessate non solo alle forniture di mobili ma anche alla fase di costruzione delle case, sulla base dell’esperienza che hanno fatto a L’Aquila nel dopo terremoto. Si parla di case in legno che dovrebbero costare appena poco più di quei famosi mille euro al metro quadro e che dovrebbero avere tempi di realizzazione molto rapidi. E Federlegno vuole vendere prima porte, finestre e scale e poi l’arredo vero e proprio. «Pensiamo che sia possibile arredare queste case con prodotti originali e di marca con un costo inferiore ai 250 euro per metro quadro. Del resto se non lo facciamo noi lo fa l’Ikea». Tra le aziende d’eccellenza coinvolte nel progetto ci sono anche griffe come Poliform e Flou e tutti lo considerano un primo test dal quale apprendere e ripartire. Perché anche le aziende d’oro della Brianza sanno che non si potrà vivere sempre e solo di export.

Fonte: Corriere della Sera del 19 ottobre 2010

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