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Europa America e Cina hanno un problema comune chiamato dollaro

L’euro è ancora lontano dalla stabilizzazione, ma la difesa dei debiti sovrani da parte della Bce e del Consiglio dei capi di stato, ancorché da strutturare meglio, alza la probabilità che l’Ue ci riesca. Tuttavia, al rafforzamento dell’euro corrisponde un nuovo rischio di caduta del dollaro che poi travolgerebbe l’euro stesso per altra via. Guido Carli avvertì che “non è possibile concepire l’euro senza una politica nei confronti del dollaro”. Ciò non è mai stato neanche tentato. Per questo motivo è necessario scenarizzare la situazione paradossale che al miglioramento della solidità dell’euro peggiori il rischio economico per l’Europa. E oltre.
L’America, contando sul ruolo di moneta di riferimento mondiale del dollaro, è incline a svalutarlo se serve. L’inflazione, poi, non è un deterrente assoluto nel limitare la svalutazione in quanto la configurazione flessibile del mercato interno la riduce via efficienza e concorrenza. All’America serve svalutare. In parte è conseguenza dei tassi dell’interesse minimi per stimolare la crescita e della creazione di dollari per coprire l’indebitamento. In parte è mossa intenzionale per bilanciare via export la bassa crescita interna e, soprattutto, per ridurre il deficit commerciale e l’impatto delle importazioni sull’occupazione. Washington certamente non vuole portare la svalutazione del dollaro a livelli tali da compromettere la sua credibilità e i flussi di investimento globali sulle sue Borse. Ma l’Amministrazione Obama non ha un buon controllo della finanza pubblica e mostra la volontà di fare qualsiasi cosa per pompare più crescita nel sistema in vista delle elezioni del 2012. In queste condizioni c’è un’elevata probabilità che il mercato finanziario globale sia indotto a scommettere su un indebolimento del dollaro e una rivalutazione dell’euro. Le agenzie di rating daranno il loro apporto. Ciò ridurrebbe la competitività delle esportazioni eurodenominate, con l’aggravante di un aumento dell’inflazione importata (perché il prezzo dell’energia cresce se il dollaro scende), inducendo la Bce a innalzare il costo del danaro. L’incertezza sul futuro dell’euro ha finora permesso di tenere la sopravalutazione del dollaro entro limiti. Se l’Unione europea ha successo nella sua attuale politica aumenta il rischio di un dollaro debole, oltre che di un’ondata di inflazione globale. L’Eurozona, Germania compresa, verrebbe stretta in una trappola fatta di bassa crescita causata dal rigore di bilancio combinata con meno export e tassi crescenti; ciò diminuirebbe i gettiti fiscali e ridurrebbe i “denominatori”, riaprendo i dubbi sulla sostenibilità degli eurodebiti. Non solo. Se la caduta del dollaro andasse oltre soglia, il mercato finanziario globale cercherebbe nell’euro la nuova moneta di riferimento, mentre questa è ancora lontana dal reggere un tale ruolo. Il dollaro sarebbe colpito da deflussi, l’America andrebbe in recessione borsistica e reale facendo mancare il suo contributo alla domanda globale e così innescando una depressione mondiale, probabilmente prolungata dal fatto che l’America non si riprenderebbe più. Tale secondo rischio è meno probabile, ma non escludibile. Il primo ha maggiore probabilità ed è già attualizzato da tempo perché la Bce vuole tenere artificialmente elevato il cambio dell’euro per, illusoriamente, contrastare l’inflazione importata e mantenere elevati i flussi verso euro. Proprio questa sottovalutazione del rischio di un euro troppo alto potrebbe non solo avverare il primo rischio, ma anche il secondo. Sul lato dell’America, poi, non è così certo che il governo e la Fed riescano a tenere entro argini la scelta svalutativa. Soluzioni? Un accordo politico tra Europa e America per limitare le oscillazioni di cambio entro un raggio determinato, utile per costruire prodotti finanziari di stabilizzazione complessiva che evitino flussi eccessivi verso euro e deflussi catastrofici dal dollaro. E viceversa perché l’euro non è ancora guarito. Uno di noi, Savona, ritiene che la rifinitura finale dei dettagli e degli strumenti dell’accordo dovrà includere la Cina in quanto capace di muovere una tale quantità di capitali da rendere inefficaci accordi sui cambi che divergano dai suoi interessi. L’altro pensa sia meglio usare la forza congiunta di America e Europa per condizionare una Cina inaffidabile ed essa stessa a rischio di implosione. Ma ambedue concordiamo sulla priorità di un accordo globale a tre, in qualche modo.

Fonte: Il Foglio del 26 luglio 2011

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